Nella sua pellicola del 1952, Kenji Mizoguchi racconta la storia di O-Haru, cominciando dalla giovinezza dell’anno 1658, quando la relazione clandestina con un servo fa condannare lei e la propria famiglia all’esilio da Kyoto. “Sei andata a letto con un uomo senza il nostro consenso. Cosa c’è di peggio?” è il rimprovero del padre, un commento che oggi suona come un anacronismo tale da destare quella che probabilmente sarà l’unico sorriso divertito dell’intera proiezione. Ma questo è solo l’inizio, per la spettacolare visione del pubblico e per il travagliato percorso di O-Haru.
Rientrando negli assurdi e specifici canoni di bellezza del signore Matsudaira, O-Haru viene scelta come concubina per portare in grembo il futuro erede del clan. La ragazza viene comprata a un buon prezzo, ma viene poi congedata a lavoro compiuto con poche monete. Lavorerà poi per tanti, capace di piacere alle persone e ottenerne la fiducia. Di volta in volta però, un passato troppo volgare per essere trattata da signora, ed un fare troppo signorile per essere ben accolta nelle oiran della città, le negheranno la permanenza in ogni luogo, costringendola a vagare con la propria sacca di sventura in sventura.
La scelta narrativa è quella di passare quasi sempre da una scena all’altra con una dissolvenza al nero che funga da copertura dei fatti fra le scene adiacenti, ma i dubbi sono lasciati solo per pochi secondi e il filo resta coerente, la storia scorre senza buchi di sceneggiatura. Il film fu infatti premiato al festival di Venezia l’anno della sua uscita.
Tra un bianco-nero di seta e ombre dietro a shōji, lo spettatore è lasciato a navigare in un senso di rassegnazione empatica, vedendo O-Haru sempre bella, anche se anziana, sempre forte anche se in ginocchio. L’unica ricchezza che possiede è il proprio aspetto, e viene usato da altri come moneta di scambio. Per la ragazza, la propria bellezza conta tutto ma non vale nulla.