Rivedendo la cinematografia di Giorgio Diritti alla luce del suo ultimo film, quello che pare emergere complessivamente, oltre al profondo senso etico, è una visione tragica sull’insolubile conflitto tra il diverso e la comunità. Da un film all’altro viene ripresa una riflessione sull’animo non solo omologante, ma anche predatorio e ferino del branco umano, che non si limita a espellere chi ne altera gli equilibri, ma ne distrugge anche i suoi componenti più fragili. Non c’è messa in mostra di una conciliazione tra le parti, perché non viene data possibilità di riscatto ai più deboli. C’è piuttosto la presa di coscienza dell’animo spietato e egoistico che dirige le azioni umane in molteplici contesti, sia che si tratti di difendere le proprie terre dal passaggio delle pecore del “forestiero”, creando limiti e mappature in terreni abbandonati ne Il vento fa il suo giro, sia della ricostruzione storica ne L’uomo che verrà di uno dei capitoli più drammatici della Seconda Guerra Mondiale, ossia l’eccidio di Marzabotto, dove il neonato sopravvissuto sarà figlio di una strage, eseguita dai nazisti grazie al supporto di alcuni italiani e l’inazione di altri.

Dopo la rappresentazione della meschinità e grettezza della collettività montana ne Il vento fa il suo giro e l’orrore de L’uomo che verrà, la comunità si disgrega definitivamente. I protagonisti degli ultimi film del regista, per scelta o per condizione, sono esuli. Se Augusta (Jasmine Trinca) ne Un giorno devi andare lascia l’Italia e prova a ricrearsi una vita tra gli indios e nelle favelas brasiliane, il biopic di Volevo nascondermi ci mostra tramite una serie di flashback l’infanzia e la giovinezza di Antonio Ligabue, fatta di violenza e abbandono. Nato in Svizzera da una famiglia italiana e dato in affidamento all’età di un anno, il futuro pittore è vittima di soprusi da parte dei genitori adottivi e degli insegnanti e viene affidato a un istituto per ragazzi affetti da disagi mentali, dove all’età di quattordici anni scopre la morte di tutta la sua famiglia natale. A vent’anni Ligabue viene espulso dalla Svizzera e finisce nella cittadina romagnola di Gualtieri. Lì non imparerà mai del tutto la lingua e sarà cacciato dai locali, fino a dover vivere in una baracca nel bosco. Questo finché non viene accolto in casa dallo scultore Renato Marino Mazzacurati, che ne scopre anche il talento artistico.

Da quel momento si avvia un suo progressivo inserimento nella vita della cittadina rurale, che va pari passo col percorso di affermazione del suo talento. Ma Ligabue non sarà mai realmente integrato, e nell’arco degli anni sarà più volte internato in istituti psichiatrici. Dalla radicale esclusione del pittore nasce la sua totale immedesimazione con l’universo animale, mostrato nei suoi dipinti in tutta la sua sontuosità. Tigri inferocite, aquile che si avventano sulle prede con le ali spianate, cavalli imbizzarriti.

La conflittualità dell’universo e la rabbia dell’artista sono così esteriorizzate, come anche la purezza primigenia del mondo naturale. “Io i cavalli li rispetto” dice Ligabue quando espone a potenziali compratori un suo quadro. La sublimazione tramite l’arte lo renderà un individuo speciale, immortale addirittura, come dice di sé stesso al suo autista, ma mai un uomo facente parte di una collettività. Incapace di esprimersi compiutamente, senza una casa propria, Ligabue si rispecchia nell’infanzia o nel mondo anch’esso apolide e marginale dei circensi. Ottenuta una certa agiatezza economica cercherà una moglie, ma non potrà sposarsi e solo nel camuffamento, vestendosi da donna, proverà a trovare una compenetrazione.

Pur riconoscendo la magistrale interpretazione di Elio Germano, che gli è valsa l’Orso d’argento all’ultimo Festival di Berlino, il film è stato accolto tiepidamente da una parte della critica nostrana, che rimprovera a Diritti di non essere riuscito a esprimere adeguatamente l’estro creativo e la follia del pittore Ligabue. Non si riconosce forse sufficientemente il valore morale dal quale scaturisce il profondo senso di amarezza dei film del regista.