Al suo secondo lungometraggio da regista, l’australiano Samuel Van Grinsven va alla ricerca di un dramma fantasmatico attraverso cui esplorare sentimenti grevi e difficilmente decifrabili. L’entroterra neozelandese diviene glaciale involucro per l’elaborazione di un lutto che vede relazionarsi Jill (Vicky Krieps) e Jack (Dacre Montgomery), rispettivamente compagna e figlio della defunta Elizabeth.
Da un lato il dolore e il senso di colpa per non aver saputo prevenire il suicidio della persona amata, dall’altro un ritorno che è anche un lacerante desiderio di risposte, dopo essere stato abbandonato poco più che infante ed essere cresciuto lontano dall’affetto materno. Un incontro da cui scaturisce la possibilità di una risoluzione ai propri tormenti, ma anche il timore dovuto all’emersione di terribili verità rimaste lungamente celate.
Went Up The Hill ((presentato al Torino Film Festival 2024) si fa carico del tutt’altro che semplice proposito di inscenare un dialogo tra il presente e due versioni sovrapponibili di un passato che continua a produrre traumi e lo fa tramite istanze comunemente ascrivibili ai generi dell’orrore, ma con intenti differenti. C’è uno spirito inqueto che aleggia sui personaggi, un’anima ormai scollata dalle sue spoglie terrene che si introduce nei corpi viventi dei protagonisti per utilizzarli come medium al fine di comunicare a fasi alterne con entrambi; in cerca di contato sia con la compagna di vita che con il figlio vessato e respinto.
Trovata narrativa che abbraccia una dimensione cinematografica estremamente affascinante dal punto di vista teorico, in cui Elizabeth, in un paradosso quasi pirandelliano, diviene personaggio senza un corpo e quindi senza un’attrice che le dia le sembianze. Sono quindi Jill e Jack (e dunque i rispettivi interpreti) a farsi carico delle parole e delle movenze di un’entità incorporea, estranea alla realtà della finzione, ma a tutti gli effetti presente in quanto attante del testo filmico, in grado di interagire e produrre mutamenti.
In questa stratificazione di significati e di possibilità narrative Van Grinsven fatica però a concedere la giusta cura all’elaborazione di rapporti situati su differenti piani del reale, utilizzando questa trovata come un semplice mezzo per giungere alla ricostruzione degli eventi antecedenti. Una soluzione che limita parzialmente le possibilità di un’opera che, ciononostante, trova il proprio peso emotivo nelle intense interpretazioni attoriali, in grado di restituire la complessità delle loro tribolazioni, e ad un attento lavoro sulla messa in scena.
Figure umane, spazi interni e natura circostante, infatti, si fondono su tonalità cupe e gelide al fine di farsi riflesso dell’interiorità di questi individui alla disperata ricerca di calore. Ed è proprio la prossimità, l’unione anche fisica di due corpi fragili a rappresentare il viatico per la salvezza. E per quanto una totale redenzione possa apparire come una soluzione inarrivabile, il sollievo di poter tornare a guardare nuovamente avanti dopo avere reciso il legame con un passato di violenza può essere comunque accolto come un finale consolatorio.