Come ogni film di Christophe Honoré, anche Winter Boy (MUBI) esplora il lutto e la malinconia assimilati nel percorso di formazione di un giovane che rincorre la sua dolorosa e struggente emancipazione.

Il diciassettenne Lucas (uno sfolgorante Paul Kircher) srotola parole e pensieri di fronte alla macchina da presa come se stesse guardando il suo psicanalista; va avanti e indietro nel tempo, circumnavigando con riflessioni estemporanee e profonde autoanalisi lo scoglio insormontabile della morte del padre avvenuta dopo un tremendo incidente stradale. Il lutto, attraverso il vitalismo registico di Honoré, assume la valenza di un movimento in levare con il quale è possibile misurarsi e confrontarsi. Lucas guarda spesso verso lo spettatore come nell’ultima scena che termina con un sorriso, e si guarda, a volte studiandosi, come se volesse ritrovare i segni fisici e spirituali della perdita sulla sua pelle, su un corpo che vorrebbe esplodere senza emettere suoni, nello struggimento di un attimo.

È emblema della malinconia allo specchio di baudelairiana memoria, ma lo spleen, piuttosto che inseguire la dissoluzione lacaniana, si tramuta in un misto di euforia e disperazione come sosteneva Aristotele parlando della forza melanconica che innalza l’uomo ai più alti pensieri, rendendolo insieme un carico di ebbrezza e allo stesso tempo di inerzia spirituale. Lucas è infatti attraversato da un dolore che produce violenti spasmi, sommovimenti e scatti improvvisi ma che alla fine invoca anche pietà. “Vorrei che il mio corpo occupasse tutto lo spazio”, dice il ragazzo incapace di sopportare il peso di una mente che vacilla di fronte all’enigma della morte del genitore.

Lucas insegue una sofferta educazione sentimentale trasferendosi, dopo il lutto, dal fratello Quentin, “Dans Paris” (altro affresco parigino di Honoré del 2006 in cui una famiglia respinge la tristezza del lutto in una girandola che omaggia la Nouvelle Vague). Con gli stessi raccordi di montaggio del film con Louis Garrel si contrappone, in Winter Boy, l’alternarsi del prima e del dopo in un labirinto sentimentale che produce estasi e lacerazioni, spaesamento e nevrosi esistenziale. Il parlare di Lucas è un parlare per esserci, per tornare prepotentemente a esistere, con l’amorevole madre (Juliette Binoche) e con lo scostante fratello (Vincent Lacoste), con gli amori occasionali che sbocciano per strada e con il migliore amico del fratello, con il quale entra in una profonda sintonia sentimentale.

La voce narrante del protagonista, diario e testimonianza di una delicata fase della vita, risponde all’idea di un’istanza narrativa autobiografica – il regista perse il padre in giovane età – che ripercorre un itinerario in cui si susseguono incontri e si aprono occasioni di riscatto. Come in La Belle Personne, Christophe Honoré filma i pensieri e le emozioni fluttuanti che esondano rompendo persino gli argini della moralità – si veda la sequenza in cui Lucas si prostituisce con un uomo più anziano – senza però che il narratore diventi mai inattendibile.

Il giovane flâneur non è Zeno Cosini, non gioca attraverso false piste psicanalitiche ma, raccontando e raccontandosi, si “diverte”, nel senso etimologico del termine, volgendosi altrove, allontanandosi da una classica rielaborazione del lutto per esplorare la frenesia di una giovinezza in bilico tra Eros e Thanatos. In fin dei conti, come recita il brano di Andrea Laszlo De Simone suonato da Lucas nella scena finale, “Non serve a niente ripararsi dal vento/Siamo solo conchiglie/ Sparse sulla sabbia/ Niente potrà tornare/ A quando il mare era calmo”.