Matthias & Maxime si apre sulla corsa in tapis roulant dei due protagonisti: chiara espressione metaforica del contenuto tematico e stilistico dell’intero film. L’ultima opera di Xavier Dolan è una corsa che mette in luce l’affanno provocato dalla ricerca di sé. Il percorso dei due amici verso la comprensione del reciproco sentimento che li lega è una corsa contro il tempo, scandita in capitoli che segnano l’inesorabile avvicinarsi dell’imminente partenza per Melbourne di Maxime. È proprio questo affanno che emerge dalle scelte stilistiche del regista canadese, che attraverso un uso sapientissimo del montaggio, un’attenta scelta delle inquadrature e un accurato studio del sonoro riesce a rendere alla perfezione la confusione emotiva dei due protagonisti.

Maxime (interpretato dallo stesso Dolan) è in procinto di cambiare vita, lasciare il suo gruppo di amici e una situazione familiare complicata: è dunque già sull’orlo di un cambiamento e in una delicata fase di equilibrio psicologico ed emotivo. Matthias (Gabriel D’Almeida Freitas) ha invece raggiunto un’apparente stabilità – professionale nel suo studio di avvocato e affettiva con la sua fidanzata – che però all’avvicinarsi della partenza dell’amico inizia a scricchiolare, specialmente dopo che le esigenze di un cortometraggio in cui stanno recitando gli richiedono di baciare Maxime.

Questo bacio è il detonatore di una vera e propria bomba emotiva ed è causa di una crisi personale, soprattutto per Matthias, perché riporta a galla un rimosso che reclama attenzione, analisi, comprensione.  Matthias invece non comprende: deve nuotare, cercare nello sfogo fisico un canale di sfogo emotivo, ma è talmente sopraffatto dall’episodio e dal suo significato (ancora còlto solamente a livello incoscio) da “perdersi” nel lago. Da questo momento l’inquietudine dei due protagonisti si fa sempre più pressante e, cinematograficamente, sempre più evidente: dopo aver rappresentato per lo più uno sguardo esterno oggettivo nella prima parte del film – pur senza evitare di costruire inquadrature assai iconiche, come quella che incornicia i due amici nel vano della finestra o quella in cui essi sono pronti a baciarsi davanti alla videocamera – la regia di Dolan si afferma ora come esplicito corrispondente sensoriale della psicologia dei due ragazzi.

La camera a spalla segue da vicino i personaggi nelle scene in movimento e l’assenza di cavalletto anche nelle situazioni statiche sottolinea e trasmette un’instabilità che era stata preannunciata dal materasso ad acqua su cui Matthias si era seduto prima del bacio. Il montaggio si fa ansiogeno, veloce, riproducendo il senso di agitazione interiore e di inadeguatezza che Matthias avverte nelle varie situazioni in cui si trova. I ralenti cessano di essere puro elemento pop per trasformarsi in meccanismo stilistico di straniamento e pure il sonoro diventa strumento espressivo fondamentale di una soggettiva psicologico-sensoriale: il silenzio e le variazioni di volume sono parte di una tecnica che Dolan padroneggia perfettamente riuscendo a dire il non detto senza l’uso di parole.

Tutta la parte del film successiva al bacio è così dominata da un senso di affanno, effetto di quell’ansia psicologica che causa i bizzarri comportamenti di Matthias e accompagna Maxime nelle sue tappe verso la partenza (i saluti, le feste, il disbrigo delle questioni burocratiche per la madre – Anne Dorval – di cui è amministratore di sostegno).

Con Matthias & Maxime Dolan si dimostra regista creativo e maturo, padrone del linguaggio cinematografico e capace di coniugare estetica pop a tematiche profonde, una forma ineccepibile ad un contenuto intimo narrato in modo mai banale e mai scontato. La storia del film è tutta interiore, gli eventi accadono soprattutto dentro i personaggi. Matthias, abituato a controllare tutto, persino a finire le frasi degli altri, si trova completamente alla deriva: si presenta con ore di ritardo agli appuntamenti, si dimentica della festa in programma per Maxime, è completamente in balìa di un nuovo sé che non riesce a gestire.

Le parole del suo capo che lo sta per promuovere (“Alla sua età è normale avere dei dubbi, dubitare, voler fare nuove esperienze. Un giorno ti svegli e sei in trappola. A volte passi tutta la vita a fare una cosa finché poi finalmente non inizi a farne un’altra”) suonano alle sue orecchie come la lettura del suo animo in conflitto. Matthias si sente “esposto” esattamente come lo è Maxime a causa del suo angioma, oggetto e vittima di uno sguardo esterno (il ragazzo che lo fissa alla fermata dell’autobus, l’altro che gli sorride prima che il sangue gli coli dalla fronte). Del resto, la domanda fondamentale, posta ai due protagonisti dalla regista del cortometraggio, è proprio: “Chi sa davvero chi siete?”. Entrambi sono alla ricerca di un “posto nel mondo” in una società che innalza cartelli pubblicitari del pane “Sainte-Famille” o che fa togliere l’anello di fidanzamento al giovane avvocato Kevin che si vuole divertire.

Per trovarlo, questo posto nel mondo, Matthias e Maxime dovranno guardarsi dentro e capire chi sono. E il fatto che ad innescare il cambiamento sia l’atto di girare un cortometraggio è una stupenda, appassionata dichiarazione d’amore per il cinema.