Al di là del suo stato di film dimenticato, nascosto nella memoria di chi lo vide all’epoca, vessato dal tempo, Maddalena ha un bisogno disperato di essere restaurato perché è uno dei guilty pleasure più clamorosi degli anni Cinquanta. Realizzato per festeggiare in pompa magna il cinquantesimo anniversario della Titanus, che proprio in quegli anni stava pianificando una politica industriale di ispirazione americana, questa dispendiosa coproduzione italo-francese rappresenta forse il punto d’arrivo della filmografia sonora di Augusto Genina, il più idoneo ad accontentare le esigenze sontuose e spettacolari di Goffredo Lombardo.
Parabola cristologica, vera e propria anatomia di un martirio, è la storia di una prostituta ingaggiata da un signorotto per interpretare la Madonna nella processione del venerdì santo, con l’intento di mettere in ridicolo il bonario curato. Fondato sul contrasto, il film racconta anzitutto il conflitto dell’eroina titolare, una peccatrice dal nome più che simbolico, chiamata a trasfigurarsi nella sua antitesi, la vergine redentrice. Fin qui tutto abbastanza lampante, ma a scuotere è il volto contrito di Märta Torén, un’attrice svedese che dopo alcuni anni ad Hollywood concluse la sua breve esistenza nei nostrani drammoni in costume: tanto pertinente la sua aderenza fisica all’iconografia mariana, quanto incredibile come ragazza del sud (siamo in un meridione alla Sud e magia, tra miracoli e superstizioni), la Torén attraversa il film con un’aria allucinata che non sarebbe dispiaciuta a Riccardo Freda, cogliendo, magari involontariamente, la dimensione perturbante di questo incubo paesano.
Melodramma fiammeggiante, illuminato dalla caldissima fotografia di Claude Renoir, reduce da La carrozza d’oro – e con qualche affinità emotiva con il contiguo La contessa scalza, Maddalena è un trionfo di crudeltà, in cui Genina fa esplodere il suo aristocratico disprezzo per la plebe, qui raffigurata attraverso una galleria di facce brutte e turpi di attori non professionisti come in Cielo sulla palude. Se le donne, sdentate ed infide, fanno maturare il ragionevole sospetto sulla misoginia del regista, specie se a guadagnarci è la splendida protagonista, gli uomini non sono da meno, sia Folco Lulli al solito abietto (in attesa de La risaia) che l’inerme biondino Jacques Sernas, nonché, va da sé, il gigionissimo Charles Vanel, motore negativo della storia. Ovviamente è il prete Gino Cervi a garantire la salvaguardia dell’umanità, ma purtroppo non può evitare il devastante finale, grandiosa orchestrazione di una massa fasciata negli allegorici costumi della Passione.
Un grande rimosso del nostro cinema popolare, chissà perché trascurato come altri film del periodo su donne “non allineate” (La spiaggia, Persiane chiuse, La lupa): riscoprirli è come ripercorre una storia parallela del cinema italiano.