Brigitte Bardot: la donna più fotografata degli anni Sessanta. Brigitte Bardot: chiamata da Godard per recitare in Il disprezzo, ci dice Jacques Rozier nel documentario Le parti des choses, non a interpretare il personaggio di Camille, bensì a recitare se stessa. BB è l’icona, BB è la diva europea degli anni d’oro della Nouvelle Vague. Ma che cosa vuol dire rappresentare una diva in quanto tale? Come si può dar conto del processo di iconizzazione, esprimere il modo in cui esso agisce all’interno dell’immaginario?

Il significato culturale della diva, ben evidenziato dagli studi visuali (ad esempio di Elisabeth Bronfen e Barbara Straumann), è di per sé intrinsecamente ambiguo: appartiene contemporaneamente a due luoghi distinti, quello della realtà del pubblico e quello quasi mistico del “divinum” che la isola rispetto al mondo circostante. La diva perde il pieno possesso del proprio corpo, necessariamente condiviso, e sedimenta su di sé la dicotomia fra una solitudine ineluttabile e l’esibizione costante.

Il rapporto fra diva e immagine in movimento sembra quindi connotato in modo decisamente paradossale: da un lato, è nella dimensione finzionale del racconto cinematografico che l’attrice si consacra in quando icona, eppure, nel momento in cui avviene tale slittamento, perde quel contatto immersivo con la storia di cui fa parte, e ne trascende il tempo e lo spazio.

Pensiamo, ad esempio, a Brigitte Bardot in La verità di Henri-Georges Cluzot (1960), una delle sue interpretazioni più apprezzate: il personaggio di Dominique è caratterizzato da una sensibilità melodrammatica intensificata dal ricorso a primi piani ora del volto, fortemente espressivo, e delle mani. Eppure alcune scene già lasciano intravedere qualcosa di diverso, come in quella in cui Dominique, appena terminato un litigio con la sorella, inizia a ballare nuda (snodo fondamentale della trama, dal momento che prelude all’incontro con Gilbert). Qui il personaggio finzionale sembra cedere il passo all’icona BB: l’attenzione si concentra, per sineddoche, su porzioni nude del corpo (le gambe e i piedi prima, la schiena poi), il volto viene colto dopo una visione di spalle, come se si trattasse di uno svelamento progressivo che tuttavia non lascia spazio ad un’introspezione della protagonista. Il suo sguardo rimane inattingibile, e quel che conta è il movimento, iterato e quasi meccanico, di una danza senza spazio e senza tempo. Poco dopo, alla presenza imbarazzata di Gilbert, si ripeterà lo stesso schema, con BB/Dominique che danza di schiena nuda nel letto.

La diva prende il posto del personaggio, e lo fa attraverso un meccanismo che non può non ricordare, a noi spettatori contemporanei, due elementi: da un lato, la posa e il meccanismo di visione è molto simile a quello che Godard metterà in scena, ad esempio, nella scena iniziale di Il disprezzo, in cui la camera indugia sulle gambe e sui glutei nudi di Camille; dall’altro, la presenza di un movimento, separabile, isolabile e atemporale è molto simile, ontologicamente parlando, al principio che soggiace le GIF contemporanee, ovvero, come ci dice Tommaso Isabella in un recente articolo sull’argomento, la “fissazione del movimento in un tempo sospeso”.

E forse non è un caso che proprio una sorta di proto-GIF sia presente all’interno del docu-film che Jacques Rozier ha girato intorno alla nuvola mediatica creatasi sulla Bardot durante le riprese del film di Godard a Capri. In Paparazzi (1963) Rozier riflette in modo compiuto sulla dimensione divistica dell’immagine della Bardot. Rincorsa, cercata dai paparazzi, nuova categoria sociale che vive di scatti “rubati” alla vita privata o al backstage delle riprese, BB diventa interlocutrice silenziosa della voce narrante, che ne interpreta solo parzialmente il punto di vista, perché l’icona è superficie, è sedimentazione di un immaginario collettivo che esclude la singolarità.

L’espediente visivo cui Rozier ricorre in più punti della narrazione visiva è proprio l’iterazione di un movimento meccanico, privato della propria necessità di azione: dal susseguirsi meccanico e artificiale delle copertine di riviste su cui campeggia l’immagine della Bardot, sino ad una vera e propria GIF ante litteram: BB che, ancora di spalle, si volta di scatto verso un ipotetico obiettivo, gesto ripetuto quattro o cinque volte di seguito, rapidamente – sequenza, questa, inserita due volte a breve distanza verso la chiusura del racconto.

Nelle numerose inquadrature di spalle e nella ripetizione di gesti immotivati, l’effetto BB viene così rappresentato, meta-mediato dallo sguardo della camera che si rivolge tanto a coloro che, di mestiere, guardano a loro volta (i paparazzi), ma anche al volto della diva, ormai reso pura superficie materica e incoglibile nella sua dimensione esclusivamente umana.