Restaurato grazie al MoMa, che in mancanza di una copia integra ha utilizzato inserti delle copie d’esportazione italiana, francese e spagnola, Transatlantic dimostra quanto avesse ragione su  James Wong Howe su William K. Howard. Il leggendario direttore della fotografia, un curriculum lunghissimo che include Shangai Express e Questa ragazza è di tutti, sosteneva che il dimenticato regista fosse il più creativo tra coloro con cui aveva collaborato.

A confermare la certezza del suo estro, ecco i pianisequenza che aprono il film annunciano un discorso legato alla mobilità, perfino alla caducità delle vite che affollano il luogo enunciato dal titolo. Howard, infatti, entra nel microcosmo del transatlantico osservando ciò che accade all’imbarco con l’occhio di chi irrompe per dominare lo spazio, come il cagnolino che sovrasta i bagagli. Sempre al principio, i titoli di testa sfogliati alla stregua di un album delle figurine inducono a pensare che, oltre alle ghiotte occasioni date dall’esplorazione dello spazio, l’interesse di Howard sia tutto nei personaggi, presentati dentro cornici che accentuano l’idea di considerarli nelle loro singolarità. Ciò scaturisce dal fatto che, a ben vedere, l’ultima cosa che interessa di Transatlantic è proprio la trama: a contare sono i personaggi che la abitano, non quel che fanno per mandarla avanti; come si relazionano con il luogo, non il motivo per cui sono lì.

Il ladro gentiluomo lega, in un modo o nell’altro, tutti i viaggiatori: è insidiato da un conoscente che lo vuole incastrare; entra in contatto con la figlia di un uomo che ha perso tutti i risparmi; ha un vecchio e indecifrato debito sentimentale con la moglie del banchiere di cui sopra, a sua volta amante di un’ex love affair del ladro stesso. Si cita non a caso il film di Leo McCarey perché Howard coglie la (non troppo lunga) stagione in cui la borghesia viaggiava in mare per motivi di status, ma in cui, a causa della durata del viaggio e delle particolari circostanze, puntualmente ricordate dal loquace inserviente, si verificavano eventi determinanti per la vita sulla terraferma.

In Transatlantic, proprio per la fragilità della trama, questa componente resta sempre un po’ sullo sfondo: ad Howard interessa altro, ama il frammento, l’episodio, il lampo. Così indovina un pezzo memorabile nella sincopata sequenza della festa nel corso di una notte di tempesta, anticipa nell’inseguimento finale le suggestioni noir del decennio successivo, osserva con crudele compassione il tormento della moglie tradita Myrna Loy o del povero Jean Hersholt. E non garantisce nessun happy end.