Follie notturne. Mai il Future Film Festival poteva scegliere nome più azzeccato per una rassegna che ha visto ospitare un film come quello proiettato ieri sera. La notte è per un riflesso ancestrale il luogo ideale del peccato, della perdita del pudore, e quindi il momento ideale per proiettare Tokyo Tribe di Sion Sono, tratto dall’omonimo manga di Santa Inoue.

La trama è quella più classica della guerra fra varie tribù di una grande metropoli, scatenata dalla più potente e minacciosa che avendo in odio il carattere pacifico di una in particolare, si ritrova a dover fronteggiare quest’ultima che nel frattempo si è avvalsa dell’aiuto fornitole dalle restanti. Tutto questo raccontato con un tono talmente autoironico e sopra le righe da scatenare ilarità come se piovesse. Intendiamoci, c’è senz’altro un retaggio culturale da I guerrieri della notte di Walter Hill e 1997: Fuga da New York di John Carpenter, come anche un amore incondizionato per I sette samurai di Akira Kurosawa e tutto il western che quest’ultimo fece sbocciare, partendo da I magnifici sette di John Sturges e Per un pugno di dollari di Sergio Leone. Ma è tutto sullo sfondo.

Quella che Sono propone è una miscela di postmoderno che vede nell’esagerazione la sua potenza, stando sempre attento a fermarsi due passi prima di sembrare un Quentin Tarantino da discount. La prepotenza con cui la componente trash partecipa ad un’esaltazione scandita a ritmo di hip-hop riporta alla mente quella perla di nicchia nostrana che fu Zora la vampira, e lascia immaginare quanto questa pellicola piacerebbe ai Manetti Bros. L’irriverenza è quella alla Jesus Christ Vampire Hunter di Lee Demarbre, in cui gli attori recitano in modo ostentatamente grottesco e l’eccesso è sempre dietro l’angolo. Sono è inoltre abile ad offrire uno splatter per il quale è evidente la mancanza di mezzi ricorrendo a escamotage registici convincenti; mentre in altri momenti non si vergogna a sbatterci in faccia la natura da b-movie che permea l’intera opera. E lì sono applausi.

Forse l’unico difetto è la durata complessiva. Un gioco è bello quando dura poco, anche se la dilatazione dei tempi che il cinema d’intrattenimento ha subìto negli ultimi 15 anni (da Il Signore degli Anelli all’Universo Cinematografico Marvel) tende a farcelo dimenticare. 120 minuti per un film molto musicale e faceto – in cui ogni tribù di Tokyo ha il suo brano hip-hop eseguito con arroganza – rischiano di diventare troppi se l’armonia non è ben gestita. Ma è davvero l’unica pecca. Nel suo presentarsi sfacciatamente anticonformista e anarchico, Tokyo Tribe arriva persino a toccare le corde più ambite per un prodotto del genere: essere nella sua follia un affresco delle realtà suburbane molto più sincero di tanti film che sul medesimo argomento si prendono dannatamente sul serio.