Dal 1957 al 1977 la pubblicità ha vissuto il suo momento d’oro, con i Caroselli di Emmer probabilmente il più alto dal punto di vista dell’espressione artistica, ma oggi cosa resta di quell’esperienza e dei suoi virtuosismi?
"Cattivi, cattivi!" urlano dei bambini in grembiule da scuola elementare puntando il dito contro la telecamera. Stacco. Inquadratura stretta del Cavallo Morente di Francesco Messina che si allarga sulla facciata anteriore del palazzo RAI di Viale Mazzini a Roma. Stacco. Intervista a Vittorio Cravetto, dirigente RAI, a cui è attribuita l’idea originaria del Carosello. Mentre la voce fuori campo sentenzia: "Ad uccidere il Carosello son stati proprio coloro che l’hanno inventato".
Così, con questa ironia partigiana perennemente indecisa tra l’essere affilata e il saper essere leggera, Luciano Emmer racconta una delle tante ragioni che hanno portato alla chiusura del Carosello in un documentario dal titolo parecchio esplicativo: Carosello che passione! Ma chi l’ha ucciso? (1978).
Tra le altre cause contingenti vengono annoverate la standardizzazione americana a spazi pubblicitari di trenta secondi, la presenza ingombrante – talvolta acritica – della censura e la funzione diseducativa di alcune pubblicità. Pescandone una a caso dal mazzo, penso allo spot della Peroni con una moglie bionda e candida che porta un vassoio di birre in sala da pranzo ed esclama: “A tavola chiamami Peroni, sarò la tua birra”. Sì, i tempi erano ancora un po’ acerbi perché l’ondata del #metoo potesse travolgere l’industria della birra, ma Emmer sceglie comunque, sapientemente, di far commentare lo spot “alle delatrici più accanite: un gruppo di femministe”.
Non è dato sapere chi abbia compiuto il primo passo nel processo di cambiamento radicale della pubblicità: il mercato, la tv, i consumatori o la pubblicità stessa. Magari tutti insieme, perfettamente coordinati, a ranghi serrati nell’incedere imponente della Storia. Ma sappiamo che lo sguardo di Emmer sulla vicenda è estremamente autorevole.
Non è stato lui a inventare il Carosello, ma a lui va il merito di aver trasferito il grande cinema sul piccolo schermo, le narrazioni complesse del lungometraggio nei tre minuti dedicati agli spazi pubblicitari. La sua esperienza registica è un’esperienza di confine: si staglia a metà strada tra le ceneri del neorealismo e gli albori della commedia all’italiana, e qui si costruisce una sua identità autonoma e innovativa. Sa come raccontare con leggerezza la semplicità e la spontaneità della piccola borghesia italiana, le sue contraddizioni, le sue frustrazioni, i desideri inconfessati e quelli sbandierati. Si vede bene in Domenica d’Agosto e forse ancora meglio in Parigi è sempre Parigi. Registra il cambiamento in atto nella società del dopoguerra, lo cristallizza e su quello snoda le sue narrazioni.
L’arte di guardare, e capire, la massa come entità olistica si traduce in capacità di parlare il linguaggio del grande pubblico. Accattivarlo e dispensare consigli preziosi. Consigli per gli acquisti, s’intende. Per questo i ben 225 filmati da lui diretti (con la partecipazione di Dario Fo, Walter Chiari, Totò e altri ancora) restano un successo senza tempo. Il Carosello diventa il luogo della sperimentazione e della ricerca diegetica, il luogo in cui Emmer affina le tecniche del racconto breve quasi sempre declinato al contesto comico. E con le sue istanze di novità riesce a scardinare alcuni punti fermi della struttura canonica del Carosello: ne I gangster con Dario Fo per Agip Cortemaggiore, il celebre codino diventa quasi superfluo. Prendendo in prestito le definizioni teorizzate da Vladimir Propp, l’oggetto magico che conduce al ristabilimento dell’ordine iniziale è proprio il prodotto da pubblicizzare. E Dario Fo riesce a catturare i gangster solo grazie a un pieno di “AGIP SuperCorteMaggiore: la potente benzina italiana”.
Se la struttura narrativa subisce rimaneggiamenti nelle opere di Emmer, quello che invece resta intatto del Carosello tradizionale è la capacità di allietare le serate degli italiani. Alleggerirne le esistenze. Restano le storie dilettevoli dalle atmosfere vagamente domestiche e familiari. Resta la caratterizzazione di personaggi tipo in grado di instaurare un rapporto di fiducia con lo spettatore: il Gigante Amico sarà sempre amico e riuscirà sempre a sconfiggere Jo Condor, Calimero supererà sempre la condizione avvilente di "piccolo e nero" e diventerà bianco. Ammesso che una soluzione tale possa essere considerata ancora oggi un lieto fine.
Tutte queste componenti vanno a inscrivere il Carosello in una dimensione di serenità quasi edenica che è andata lentamente perdendosi nel momento in cui la pubblicità ha smesso di essere limitata e ingabbiata ai tre minuti serali concessi dalla legge. Di lì in poi, si è assistito all’invasione barbarica degli spot nel mondo delle immagini. Assumendo le forme più originali, la pubblicità ha occupato tutti gli spazi vuoti dell’intrattenimento e ne ha conquistati di nuovi. Con il product placement è entrata di diritto e di prepotenza anche nel settore culturale e con il native advertising è riuscita a mascherare finalità promozionali dietro contenuti e approfondimenti. Per intendersi, è quello che fa Netflix quando sponsorizza un’inchiesta sul cartello messicano sul Washington Post per promuovere la seconda stagione di Narcos.
Sarebbe fuorviante ridurre il ragionamento nella logica manichea del prima e dopo, ma emerge naturalmente il paragone tra la famosa sigla ideata da Emmer, quasi terapeutica nel suo armonizzare immagini e melodie, e i banner che appaiono ogni volta che apriamo un sito web. E tornano testardi ogni volta che proviamo a chiuderli. Quella era l’epoca in cui la gente amava e bramava la pubblicità, questa è l’epoca in cui tutti la odiano nonostante – a onor del vero – produca spesso capolavori di indubbio valore. Guardare il Carosello prima di andare a letto per molti conciliava il sonno, farlo oggi con i pop-up del web potrebbe conciliare la nevrosi. Attendiamo riscontri scientifici.