Prima di girare e interpretare Sweet Sweetback's Baad Asssss Song, film capostipite del cinema  blaxploitation che negli anni Settanta contribuì non poco a risollevare le sorti dell’industria filmica statunitense allora in crisi, Melvin Van Peebles era già autore di una certa notorietà. Espatriato in Francia in cerca di fortuna realizza alcuni cortometraggi e debutta al lungometraggio nel 1968 con La permission, sulla relazione tra una ragazza francese e un soldato afroamericano in licenza premio a Parigi. Ma è con il suo primo film americano Watermelon Man che il regista si afferma quale influente nome nel panorama indipendente nazionale. Unica sua opera realizzata per una Major come la Columbia (prassi divenuta comune con Spike Lee e altri giovani registi neri a venire), il film si presenta come una sarcastica quanto corrosiva satira sul presunto progressismo dell’America coeva.

La  metamorfosi del protagonista Jeff Garber, bianco sessista e profondamente razzista, in un nero  che esperisce letteralmente sulla propria pelle le conseguenze degli atteggiamenti e delle credenze da lui sostenuti, non è che un sardonico richiamo all’empatia che il regista rivolge al pubblico in particolare quello di origine caucasica. Provare a mettersi nei panni dell’altro per comprendere come ci si sente, un principio ancora oggi così difficile da applicare tanto da rendere Watermelon Man quanto mai attuale.

Ripudiato dalla moglie “antirazzista sì, ma fino a un certo punto”, forzato dai vicini a vender casa e trasferirsi per non far abbassare le quotazioni del quartiere, obbligato a lavori umili ben lontani da quello di un tempo finendo per aprire un’attività propria poco remunerativa, l’unica consolazione pare essere nella compagnia della segretaria Erica, immigrata svedese che gli si concederà in una notte di passione. Ma l’attrazione della donna non è per Jeff bensì per la sua etnia. È questo l’emblema del conformismo contro cui Van Peebles punta il dito, un’apparente disponibilità verso l’afroamericano ma solo per un proprio tornaconto.

Watermalon Man gioca tutto sulla decostruzione di stereotipi e luoghi comuni legati ai neri, vili e pur tuttavia riusciti tentativi di ridurre l’altro in oggetto di scherno e denigrazione di cui il cinema hollywoodiano si era da sempre fatto promotore, a partire dalla blackface simbolo del razzismo più becero dell’industria dell’intrattenimento qui trasformata in whiteface, ribaltandone valori e significati connessi. Mettendo in ridicolo per la prima volta i comportamenti dei bianchi, l’operazione di Van Peebles assume un notevole valore simbolico: primo film prodotto dall’industria bianca che ne ribalta dall’interno la logica iconografica, inaugurando un processo di rinnovamento le cui conseguenze sono ancora più visibili nel cinema odierno.

Una rivoluzione non certo silenziosa, piuttosto gridata a gran voce come sottende il finale che allude ai nascenti movimenti neri militanti, espressione di una coscienza sotterranea maturata nella Nazione e ora pronta a emergere.