Il colore della libertà pare l’ennesimo film di impegno civile a sfondo razziale del cinema americano contemporaneo che, tra le produzioni indipendenti nere e quelle bianche hollywoodiane, si sta dimostrando uno dei filoni più redditizi e longevi del panorama nazionale. Ma il nuovo lungometraggio di Barry Alexander Brown supera le aspettative, proponendosi come efficace ritratto del teso contesto razziale statunitense degli anni Sessanta la cui evoluzione pare oggi ancora in corso.

Come Spike Lee – che qui compare in veste di produttore e di cui Brown è storico montatore – il regista guarda al passato per riflettere sul presente, cercando nella storia del Paese le radici delle grandi questioni sociali ancora irrisolte, per offrire un punto di partenza ideale per affrontare più consapevolmente il proprio tempo.

Difficile non leggere nella figura di Bob Zelner, giovane studente nell’Alabama segregata che sposa la lotta pacifica afroamericana diventando il primo segretario bianco del Student Nonviolent Coordinating Committee, un esempio di quell’ideale fronte misto contro ogni disuguaglianza di cui Black Lives Matter è l’espressione più recente. Il percorso morale del protagonista diventa così assimilabile a quello di tanti altri che in questi anni – soprattutto durante la presidenza Trump – si sono esposti in prima persona contro un sistema sociale, politico e cultuale evidentemente non equo e disuguale, consci che già “non scegliere è una scelta”.

Ma il film di Brown non è l’ennesima elegia dello spirito progressista bianco della narrazione a stelle e strisce, che per compassione porta l’eroe a schierarsi dalla parte giusta facendosi elemento indispensabile all’avanzamento della causa afroamericana. Eternamente fuori posto, troppo “nero” per stare a suo agio tra i razzisti bianchi e unico “bianco” in un comitato nero, Zelner è conscio che gli afroamericani conquisteranno comunque i diritti anelati, come esprime al nonno esponente di spicco della cellula locale del KKK.

Desideroso di capire meglio la realtà afroamericana si muove in quella direzione non per tornaconto personale, ma perché mosso da un’etica individuale che va oltre la politica, stanco di quell’omertà a cui è stato educato sin da bambino e dell’impunità non di chi rispetta la regola, ma di chi è la regola.

Sotto dunque l’aspetto didattico, Il colore della libertà si dimostra ben più profondo e articolato di quanto possa sembrare e segna un passo importante nel nuovo cinema sociale americano, contribuendone all’evoluzione sia nelle figure di riferimento che nel modo di rappresentarle. D’altra parte i grandi cambiamenti partono sempre da dentro, sottopelle, bianca o nera che sia.