Guardandolo, sembra impossibile che The Elephant Man sia un film di David Lynch. Questo non per la quasi assenza di elementi grotteschi e oltremondani o per l’intreccio insolitamente lineare e coerente; Una storia vera, film molto più “normale”, si colloca benissimo nella poetica lynchana del narrare le bizzarre eppur normali esistenze che si intrecciano nelle ampie praterie, costellate di mobile homes, del Midwest statunitense. E non è neanche l’assenza di questo elemento a far risaltare questa pellicola nella filmografia di un regista dallo stile così caratteristico; Dune portava addirittura l’azione nello spazio e nel futuro distante eppure, sebbene annacquata e deformata, è ben visibile l’impronta di Lynch.

Forse ciò che distingue The Elephant Man è proprio quello che lo accomuna a tutti gli altri film: il freak, il mostro, lo sfigurato. L’uomo mostruoso (sia esso nano, gigante o menomato) è una costante nella visione lynchana ma, in quasi tutte le opere, partendo da Eraserhead e arrivando fino a Twin Peaks, esso è un’entità trascendentale, sibillina, sconosciuta e incomprensibile. Tutto, fuori che umano.  È invece chiaro che proprio questo John Merrick è: un uomo.

È su questa aspettativa che inizialmente gioca il regista: sottraendocelo ostinatamente dallo sguardo vuole dapprima creare in noi l’idea del mostro estraneo, per poi presentarci inaspettatamente l’uomo, non venuto da chissà quale dimensione per trasmetterci criptici segreti, ma desideroso anch’egli, come tutti, di felicità, amore e comprensione.

Il tema primario, ben evidente e ben discusso del film è come sia appropriato comportarsi di fronte ad un tale scherzo della natura: meglio dissimulare il ribrezzo dietro ad una forzata accettazione del mostro, ostentargli un commiserato pietismo o semplicemente aggredirlo e schernirlo per la sua disgustosa diversità? Sono questi i dilemmi che per tutto il film deve affrontare il dottor Treves, interpretato da Anthony Hopkins, sempre sul filo del rasoio tra il vedersi come un rispettato uomo di scienza e il trovarsi becero sfruttatore di una strana meraviglia.

Il dilemma, infine, si scioglie però in una conclusione ben più amara: come John Merrick non può che urlare terrorizzato vedendosi riflesso nello specchio, così noi spettatori non possiamo che allibirci davanti alla scoperta che si presenta esplicita alla fine del film. La verità è che nel nostro piccolo siamo tutti John Merrick. Per tutta la durata della proiezione ci siamo identificati con l’uomo sbagliato: non siamo i giudici, siamo i giudicati. I bisogni e le lotte di Merrick sono quelle di ogni uomo: quella per una vita dignitosa, per l’amicizia ma soprattutto per l’accettazione da parte degli altri uomini. L’uomo è un animale politico, diceva Aristotele, l’uomo non può fare a meno della comunanza con altri uomini, del loro aiuto, della loro compagnia. Fuori dal branco si è attaccati e lasciati morire. Come John Merrick ognuno di noi è perennemente giudicato e deve imparare ad adattarsi o a soccombere da reietto.

È in ciò il duro significato del commovente finale del film: Merrick capisce che non potrà mai essere accolto dai suoi simili senza adattarsi al loro aspetto e ai loro modi. La sua epifania può solo avere una terrificante conclusione: più che vivere da mostro, è meglio morire da uomo.