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“Quando eravamo re” e le parole oltre le immagini

Frutto di una gestazione di circa vent’anni e a ventiquattro dalla sua uscita in sala, Quando eravamo re si dimostra ancora oggi uno dei migliori esempi di documentario sportivo della storia del cinema, testimonianza dell’epico match pugilistico valido per il titolo mondiale di pesi massimi tra Muhammad Alì e George Foreman, il primo tra due afroamericani tenutosi in Africa, nel 1974. La manifestazione assunse da subito un’enorme portata: negli anni del black pride, due atleti neri di prima categoria si contendono il più alto riconoscimento della loro disciplina nella terra dei loro avi, da cui secoli prima partirono le prime navi cariche di schiavi dirette verso l’America.

L’avventura produttiva di “Luci del varietà”

“Un film che diventerà famoso” era lo slogan pubblicitario del primo film di Federico Fellini come regista, diretto in collaborazione con Alberto Lattuada e persino coprodotto dai due in virtù di un accordo basato su una forma di cooperativa. In realtà sin dall’inizio Luci del varietà non ebbe troppa fortuna. Come ricorda Cosulich in Storia del cinema italiano, i due registi, animati da un gran desiderio di autonomia, si rivolsero dapprima alla Lux, con la quale Lattuada, dopo anni di collaborazione, stava vivendo un periodo di forti contrasti. “Quando parlammo di questa idea a Ponti – ha ricordato Lattuada – ci disse che il soggetto non andava, era un argomento che non funzionava. Noi andammo avanti lo stesso”. Così dopo il rifiuto della Lux Lattuada decise di autoprodurre il film. Su soggetto di Fellini, fu elaborata la sceneggiatura con la collaborazione di Pinelli e un non accreditato Flaiano.

“Diario di un vizio” e la rifondazione dell’individuo

Nonostante lo stile della pellicola (stile appunto diaristico e annotativo) paia tendere ad una quasi totale negazione della sceneggiatura, sviluppandosi per sintagmi a sé stanti e consecutivi che ritraggono il protagonista in ripetitive scene di vita quotidiana (abluzioni in bagno al mattino, autoerotismo di fronte a televendite televisive, solitarie e pressochè disperate abboffate – piange strappando a grossi bocconi la colomba pasquale – di cibo e di sesso) Diario di un vizio (1993) fu scritto a sei mani con Liliana Betti e Riccardo Ghione e concentra gran parte della sua forza evocativa e simbolica nell’ambientazione delle immagini.

“Io…e l’amore”, l’ultimo capolavoro di Buster Keaton

Io…e l’amore rimane l’ultimo grande capolavoro di cinema e comicità di Buster Keaton. Il sonoro lo trae in inganno e lo allontana definitivamente dal modo di fare cinema a cui era abituato fino a pochi anni prima. Incomprensioni con la MGM lo portano a non essere più nemmeno preso in considerazione e a rimanere relegato a ruoli macchiettistici perdendo tutte quelle libertà decisionali a cui era abituato. Inizia così il declino della carriera di Keaton alternata da problemi di alcolismo e frequenti flirt con tante colleghe, declino che viene ricordato da Keaton stesso come uno dei più bui della sua vita e da cui saprà rialzarsi, adeguandosi ai nuovi prodotti e ai nuovi costumi che esige il flusso del cinema.

“La baia dell’inferno” al Cinema Ritrovato 2020

È un vero gangster movie duro e crudo, La baia dell’inferno. Tuttle concede un paio di sagaci battute hard boiled d’ordinanza alla sceneggiatura ma nulla più. Eppure, per quanto il regista sia molto più serioso che nei film passati, le statue religiose disseminate ovunque nelle stanze del boss criminale e la moglie religiosissima sembrano caricate, più che di un giudizio morale, di un’amara ironia. Impossibile poi non soffermarsi sulle donne di Tuttle, al solito meravigliosi oggetti dello sguardo spettatoriale – e Tuttle riesce a erotizzare anche l’ombra di un microfono sul vestito candido e sensuale di una cantante di night club – eppure, sarà un caso, ancora una volta non lì per essere salvate, ma per aiutare l’eroe a salvarsi.

Marco Ferreri e l’ossessione del piacere

L’intelligenza di Ferreri è di una lucidità agghiacciante ma anche di una maestria sopraffina: riesce infatti ad adattare la forma della sua opera al racconto che sta portando avanti. In Break-Up inserisce una frastornante sequenza a colori che stordisce lo spettatore proprio come la festa piena di palloncini stordice Mastroianni; la raffinatezza curatissima delle scenografie, degli arredi di scena e dei costumi della Grande abbuffata riflette l’estetismo quasi decadente che gli amici protagonisti ricercano nel loro soggiorno di addio alla vita nella villa in campagna; la linearità schematica, ripetitiva e inesorabile del racconto di Diario di un vizio rende perfettamente l’angoscia esistenziale che si muove sottotraccia nell’animo di Jerry Calà.

“Speer Goes to Hollywood” e l’ambiguità del carnefice

Chi era Albert Speer? Il “nazista buono” che si oppose a Hitler negli ultimi anni del Reich, o “l’architetto del diavolo” pienamente consapevole delle atrocità commesse dal regime? Una cosa è certa: Albert Speer fu un nazista e, in quanto nazista, complice e oppressore. A sei anni da L’uomo per bene – Le lettere segrete di Heinrich Himmler, Vanessa Lapa torna a raccontare le ambiguità dei carnefici, soffermandosi sulle loro enigmatiche personalità. Speer Goes to Hollywood racconta la storia di uno dei fautori della Germania nazista, del mito di “partecipante estraneo ai fatti” che egli stesso costruì per sopravvivere al processo di Norimberga e di un caso peculiare che costituisce il fulcro della narrazione.

“Erotikon” al Cinema Ritrovato 2020

Considerato da molti la prima commedia sofisticata svedese, Erotikon di Mauritz Stiller (fautore del successo di Greta Garbo negli Stati Uniti) è il ritratto borghese del gioco di seduzione e di equivoci fra coppie che si slegano e si attorcigliano in un nodo degli inganni e dei sotterfugi compiuti apparentemente ai danni di tutti. Prodotto nel 1919, sei anni prima del capolavoro I Cavalieri di Ekebù (Gösta Berlings saga, 1924, ufficiale debutto al cinema della Garbo), il film è liberamente ispirato alla piéce teatrale A Kék róka (La volpe azzurra, 1917) del drammaturgo ungherese Ferenc Herczeg e vede già dall’inizio vincitrice assoluta la bella Irene (Tora Teje), moglie di un professore universitario ossessionato dal comportamento degli scarabei e soprattutto dalla loro vita sessuale.

Dissidente, critico e organico: Gutiérrez Alea e la rivoluzione cubana

Alla mutevolezza della sua parabola artistica e politica si oppone la persistenza dell’indagine sociale nei suoi lavori, dettata da uno sguardo costantemente critico e dal frequente utilizzo della satira, diretta anche nei confronti del regime rivoluzionario cubano: non a caso, si autodefinì “un uomo che pone critiche all’interno della rivoluzione, al fine di migliorarne il processo e non di distruggerla”. Sta qui il dato eccezionale di Gutiérrez, cioè la capacità di mantenere aperti gli spazi di critica e satira artistica anche nella peculiare situazione dello Stato castrista: aspetto che emerge con forza dalla visione de La morte di un burocrata, dove gli attacchi alle storture del meccanismo statale e all’apparato propagandistico vengono espressi senza metafore. Sarebbe decisamente ingiusto limitare l’analisi del film del 1968 esclusivamente al suo contenuto politico, dal momento che La morte di un burocrata esibisce in controluce il tratto rivoluzionario presente anche nello stile di Gutiérrez, ora quanto mai distante dal neorealismo e debitore degli influssi di un certo cinema europeo a lui contemporaneo (su tutti, Buñuel e Bergman). Tuttavia, risulta sorprendente pensare a una tale libertà espressiva in un contesto totalitario.

“A prova d’errore” al Cinema Ritrovato 2020

Almeno due linee principali connettono A prova d’errore al resto dell’opera di Lumet: da una parte, quasi come in un seguito di La parola ai giurati, la sua poetica del confronto, reso ineludibile da ambientazioni chiuse che impongono ai personaggi una vicinanza conflittuale quanto proficua, verbale e se necessario fisica. La sua regia claustrofobica fa nuovamente convergere volti, gesti, anime, minando poco a poco l’impersonalità robotica imposta dai ranghi, dai protocolli militari e dalla tecnologia. Attacco a una distanza sempre più preoccupante dal mondo vissuto, nel cui ritratto l’autore riversa tutti i suoi dubbi sulla civiltà dell’immagine. Squarcio spaventoso su un mondo di completa atrofia comunicativa, incapace di arrestare una corsa verso l’autodistruzione programmata chissa da chi e perché, A prova d’errore tiene incollati alla poltrona e addirittura commuove per la sua ricerca disperata di un fuoco sotto la cenere, di un cuore ancora pulsante da qualche parte fra valvole e circuiti. Contro l’ironia kubrickiana, il grottesco senza appello, la presa d’atto del disumano e dell’assurdo come sostrato della civiltà nei secoli dei secoli, lascia con un grido d’aiuto e la speranza di una risposta.

“Justitia” al Cinema Ritrovato 2020

Ci sono personalità nel cinema muto che spuntano all’improvviso e poco dopo scompaiono misteriosamente nel nulla senza lasciare traccia. Non si sa praticamente niente dell’attrice appartenente al filone italiano delle forzute, risposta un po’ tardiva alla ben più nota corrente statunitense capitanata da Pearl White, dove appaiono qua e là nomi come Linda Albertini, Ethel Joyce, Gisa-Liana Doria e Piera Bouvier. Forse nobildonna veneziana, Astrea appare in qualche fotografia sulle riviste d’epoca e in quattro film, uno intitolato La Riscossa delle maschere (Leopoldo Carlucci, 1919) e tre diretti da Ferdinand Guillaume alias Polidor/Tontolini Justitia (1919), L’Ultima fiaba (1920) e I Creatori dell’impossibile (1921), dopodiché di lei non si hanno più notizie, tantomeno dati biografici. Con questi pochissimi film di cui ora siamo a conoscenza, Astrea contribuisce ad estendere l’idea di una femminilità tosta e intrepida che conserva però ancora quel tocco di garbo e classe, tutte qualità in cui le donne spettatrici nei cinema italiani dei primi anni Venti possono forse rispecchiarsi per poi sognare un po’di più.

La forma della suspense: “Orgasmo” di Frank Tuttle   

Questo thriller stilizzato fa un ottimo uso delle scenografie bizzarre e disturbanti di Frank Paul Sylos, sfruttando il budget insolitamente alto per un film Monogram, casa di produzione specializzata in film di seconda categoria a basso budget. I set donano al film un’atmosfera tesa e straniante: l’espediente delle esibizioni della protagonista permette l’uso di coreografie e décor diversi tra loro ma quasi minimali, mentre è soprattutto il design dell’attico dei Leonard e della casa di montagna, con le loro scale contorte ed elementi d’arredo stravaganti, a contribuire a ispessire la suspense del titolo, l’attesa che accada qualcosa di terribile. La regia di Tuttle e la fotografia di Karl Strauss fanno il resto, sfruttando al meglio l’oscurità e i contrasti di luce e ombra, esaltando dettagli che presagiscono sventura, come l’onnipresente “cerchio della morte” di coltelli contorti attraverso il quale Roberta deve saltare nel clou del numero di pattinaggio.

“Serpico” e l’anomalia dell’emarginato

Il Serpico di Lumet è un’anomalia su più fronti, incarna i valori più alti della sua missione ma empatizza con la strada, respira con essa, dialoga più a suo agio con i malviventi che con i suoi colleghi. La trasformazione di Al Pacino si compie come un’esagerazione progressiva: man mano che la corruzione dei distretti si rivela più ampia, Lumet ne estremizza l’aspetto e le bizzarrie. Presto la giustificazione del travestimento “sotto copertura” non regge più: Serpico è ufficialmente un freak, un emarginato, un autentico figlio della City. Ha dismesso l’uniforme, quella divisa che non significa più niente per lui, e veste i panni dell’escluso. La morale di Serpico è diventata maniacale e i suoi gesti compulsivi come la città che percorre in lungo e in largo.

Mara Blasetti e Giuditta Rissone. Storia delle donne del cinema italiano

Come sempre al Cinema Ritrovato è possibile rivedere e rivivere le carriere di grandi del cinema del passato, ma anche approfondire le vite di personalità altrettanto importanti per la settima arte, ma meno conosciute. E forse tale risvolto rende ancor più prezioso questo festival. Stiamo parlando di film come Ritratto di Mara Blasetti e Mia madre, Giuditta Rissone, il primo diretto da Michela Zegna e il secondo da Anna Masecchia e Michela Zegna. Entrambi i lavori sono stati concepiti a partire da materiale d’archivio, ma l’intenzione delle autrici è stata quella di renderli fruibili e appetibili a tutti e non solo a chi frequenta ambienti accademici o cinetecari. E sembrano esserci riuscite.

“La belle dame sans merci” al Cinema Ritrovato 2020

L’idea della bella dama senza pietà ritorna nella letteratura e nel cinema. All’epoca del muto era una tematica ricorrente e la stessa Dulac aveva in parte affrontato il poco tempo prima con La Fête Espagnole, che partiva però da una sceneggiatura di Louis Delluc. In La belle dame sans merci la Dulac cura sia la regia che la sceneggiatura e, al solito canovaccio del genere, aggiunge un elemento di novità dato da un secondo personaggio femminile che emerge per positività e compostezza. La Dulac non è mai banale nella costruzione delle sue vicende e anche qui riesce a dare il suo tocco personale a quello che forse è il suo film “più tradizionale”. 

“Il mio nome è Nessuno” e il canto del cigno della mitologia western

Bellissime e significative le scene che dipingono l’eterno inseguimento in bilico tra realtà e miraggio tra Beauregard e il Mucchio Selvaggio, che ricordano quasi la vana attesa de Il deserto dei Tartari, simbolo di un genere ormai maniera, che insegue solo la propria coda. A scanso di spiegoni nebulosi un po’ gattopardeschi come quello che chiude il film, è questa sensibilità meta-filmica a rendere Il mio nome è Nessuno un film profondo, nonostante i suoi molti difetti; l’ultimo film western di Sergio Leone, se lo si vuole intendere suo, è il definitivo canto del cigno della grandiosa mitologia della presa dell’Occidente.

“La quercia dei giganti” al Cinema Ritrovato 2020

L’interesse di La quercia dei giganti (1948) di George Marshall, pomposo melodramma sulla guerra di secessione statunitense nato sulla scia di Via col vento, non si trova tanto negli aspetti più romantici e avventurosi della trama, né nella magniloquenza delle scene di battaglia o nella lucentezza del technicolor. L’interesse maggiore del film di George Marshall è, per così dire, storiografico: un conflitto tra “individualismo” come sinonimo di potenti valori originari e “ordine” castrante che, d’altronde, potrebbe trovare una propria metafora nella stessa guerra civile e nella sua genesi, e che è inevitabilmente legato al mito della conquista della frontiera e della wilderness, immediatamente richiamate all’inizio dalla targa posta alle radici della quercia che danno il titolo al film.  

“4 mosche di velluto grigio”, un pastiche cinefilo

È significativo che Argento parli di pastiche perché effettivamente il film, pur categorizzabile come thriller, presenta elementi appartenenti ad altri generi e registri come il comico, la cui ripetitività però rasenta spesso un non voluto macchiettismo (le gag con il postino). Da questo punto di vista, 4 mosche di velluto grigio può ben essere definito una “costruzione bizzarra”, secondo la definizione che Argento stesso dà delle sue opere. In effetti, la genesi del film è scaturita proprio dall’idea di creare qualcosa di nuovo, di diverso dai film precedenti, di bizzarro.  E indubbiamente non possono non colpire taluni aspetti della trama (per altri versi invece inverosimile) che trattano i temi del sogno e della psicoanalisi, così come alcuni arditi stacchi di montaggio e certe invenzioni visive. La tecnica è infatti uno dei due aspetti del film che ancora oggi colpiscono per la loro novità, la freschezza e l’originalità.

“Delitti imperfetti”, imperfetti frammenti

I muti della sezione “Delitti imperfetti” al Cinema Ritrovato 2020 sono un gruppo di film di genere crime di durata molto breve, alcuni con un titolo provvisorio, altri di cui non è stato possibile attribuire il regista, diversi il cui anno di produzione risulta sconosciuto. Ognuno di loro (Idolo infranto, Nina la Poliziotta, Il Re dell’Abisso, Il Passato che ritorna, ecc.) così come è stato presentato in sala, è un frammento di film. Un frammento di film è materialmente un oggetto fisico che nella sua interezza dovrebbe completare un racconto e darvi un senso; idealmente, un frammento è un documento e solo trattando il frammento di film come tale siamo in grado di porci delle domande. Da dove viene? A quale film appartiene? Lo conosciamo già? Siamo in grado di riconoscerlo? È lacunoso? Abbiamo delle fonti che possano testimoniare e confermare l’esistenza del film?

“Il soldato negro” e le contraddizioni di una nazione

Negli anni Quaranta, con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, il cinema hollywoodiano si schiera in prima linea con opere di spirito propagandista a sostegno dell’intervento bellico, in nome di quei valori di pace, libertà e uguaglianza di cui l’America si è sempre fatta promotrice. Uno dei lavori più interessanti di questa produzione è Il soldato negro di Stuart Heisler, scritto dall’autore nero Carlton Moss e rivolto esplicitamente al pubblico afroamericano, il cui intervento bellico è rappresentato come ideale prosecuzione del contributo storico dato dal popolo black alla crescita del Paese. Il film ha il merito di essere uno dei primi a rappresentare fieramente le truppe nere, ma come la maggioranza delle pellicole bianche di quei anni su temi analoghi, la visione che offre della coeva questione afroamericana è solo parzialmente veritiera ed esclude volontariamente le questioni più scomode e spinose.