“Ché il bello è solo l’inizio del tremendo” affermava lo scrittore Rainer Maria Rilke nell’esordio delle sue Elegie duinesi. Un concetto, questo, che trova adeguata concretizzazione nel cinema di Kornél Mudruczó, ormai sorretto dalla costante ricerca di una bellezza che fonda immagine e gesto tecnico in un appagamento estetico tramite cui filtrare atroci sofferenze, le quali appaiono fascinosamente velate eppure mai nascoste. Così l’intuizione del piano sequenza, che in apertura del film precedente dell’autore inscenava il dramma di un parto finito in tragedia, viene qui ripresa in maniera ancor più radicale: tre atti, tre diverse epoche e tre lunghi blocchi diegetici ripresi in continuità visiva (ma non temporale). Ciascuno di essi è incentrato su tre distinti personaggi attraverso i quali si incarna il peso di una “colpa” tanto insensata quanto gravosa e difficile da estirpare.

Attraverso delle istantanee in movimento dalle vite di Éva, sua figlia Léna e del nipote Jonas, Quel giorno tu sarai è l’opera attraverso cui il regista ungherese riflette sulle differenti declinazioni della Memoria e l’ereditarietà di un dolore troppo ampio per esaurirsi entro i limiti dell’esistenza di chi lo ha provato direttamente. Ciascuno degli interludi temporali di cui si compone questa intenso ritratto famigliare sulle conseguenze dell’Olocausto è costruito attorno alla percezione di una mancanza. Secondo l’acuta analisi lacaniana effettuata da Slavoj Žižek nel suo saggio Una lettura perversa del cinema d’autore, il concetto di Vuoto ha saputo assumere una notevole varietà di declinazioni nella storia dell’arte cinematografica. Dal minaccioso approssimarsi di una Cosa sconosciuta, al mistero di una Zona invalicabile, la presenza di un’entità altera e indefinibile ha costituito materia feconda per le narrazioni dei grandi autori.

La filmografia di Mudruczó, tutt’altro che estranea al tema, si inserisce nel solco tracciato dai Maestri e ne concede qui una nuova interpretazione. Il primo episodio è quello in cui il Vuoto viene rappresentato in maniera più letterale: il lavoro dei soldati polacchi per ripulire muri e pavimenti spogli di una camera a gas. Una sequenza dal tono macabro in cui inizialmente a dominare è la sensazione che gli uomini in campo si stiano adoperando per ripulire un ambiente estraneo a qualsiasi traccia di presenza umana. Ciò fino a quando dalle fessure delle pareti e del terreno non iniziano ad emergere degli inquietanti resti organici: capelli. Il vuoto dell’ambiente angusto viene colmato dall’emersione di questi segni della tragedia che poco prima ha avuto luogo in quella gabbia sotterranea. L’azione della macchina da presa si fa concitata, i volti dei personaggi, fino a quel momento glaciali, vengono invasi dal terrore alla visione del passato che riaffiora dal nulla con la prepotenza di una marea di voci inascoltate che urlano il loro strazio.

Ma al culmine di tutto questo un suono giunge a riportare una parvenza di quiete. Un gemito che reca con sé angoscia ma anche speranza. Così, tra le rovine di un ambiente mortifero, viene rinvenuta un’infante. Éva, nata nell’inferno di Auschwitz, è sì la personificazione della sofferenza, ma come un fiore che trova il modo di sbocciare da una crepa nel morto cemento, la sua sopravvivenza rappresenta il perseverare della vita a dispetto dell’odio. Nel secondo atto Éva è ormai una donna anziana, che ha dedicato la sua esistenza alla testimonianza e al ricordo di quanto subito da lei e dalla sua famiglia. La ritroviamo in occasione di un incontro con la figlia Léna, assieme alla quale dà vita ad un lungo dialogo da cui emerge la relatività del concetto di “memoria”. A causa del suo stato di senilità avanzata Éva fatica a rammentare eventi del recente passato, ma ciò non le impedisce di mantenere un ricordo intatto dei racconti tramandatile dalla madre circa il suo periodo di prigionia. L’incontro/scontro con Léna è l’emersione di un male mai pienamente rimosso, che a distanza di tempo trova il modo di riemergere ed abbattersi anche su chi all’epoca dei fatti era ben lontano dall’essere al mondo.

E si arriva quindi al presente di Jonas, che nel pieno dell’adolescenza attraversa quella fase della vita umana che coincide con la scoperta della propria identità. Un interludio delicatissimo, in cui il peso dell’eredità etnica viene reso insostenibile da un contesto in cui l’intolleranza è ancora ben lungi dall’essere eradicata. Così come il personaggio di Sarah Jane Johnson ne Lo specchio della vita di Douglas Sirk ripudiava il proprio legame con la madre afroamericana in una società per lei penalizzante, Jonas cerca di insabbiare le proprie ascendenze ebraiche, motivo di discriminazione da parte dei coetanei. Poche e incisive sferzate di quotidianità dipingono l’irrequietezza e il malessere che lo tormentano, descrivendo un’aggressività latente non ancora addomesticata. Ma anche in questo caso la concessione di un finale dolce e, per quanto possibile, rinfrancante suggerisce una vocazione romantica che mira al superamento del trauma attraverso la riscoperta della propria libertà. Sia essa quella di abbracciare le proprie provenienze, che quella di percepirle come altro da sé.

Come suggerito dal ben più calzante titolo internazionale, il film di Mudruczó parla di “Evoluzione”, drammatizzando l’universalità della sofferenza, la sua persistenza ma anche l’arbitrarietà circa il modo di relazionarsi ad essa. E questo appare come il sentimento profondo di un film la cui bellezza non si consuma quindi in una mera dimostrazione di opulenza tecnica, lasciando trapelare la volontà di abbracciare teneramente i personaggi, delineare con rispetto la loro afflizione comune ed esaltare i rispettivi percorsi di convivenza con essa.