Evento tra i più importanti della XVII edizione di Human Rights Nights, 13th di Ava DuVernay ha già da tempo trovato una distribuzione attraverso Netflix. La scelta di proiettarlo al cinema, peraltro nell’ambito di una rassegna del genere, appare, però, più che encomiabile, non fosse altro per una ragione squisitamente tecnica: la qualità estetica dell’ultimo, notevole lavoro della regista di Selma.

Nel mare magnum del documentario contemporaneo, 13th, candidato all’Oscar e vincitore di vari premi internazionali, rifulge anzitutto per la messinscena di grande impatto visivo. C’è una certa cura nelle interviste dei vari attivisti, docenti, studiosi, politici, repubblicani e democratici, ripresi in piani medi, osservati di profilo, dislocati ai lati dell’inquadratura, colti in ambienti inconsueti o particolarmente significanti. Sono, questi ultimi, luoghi asfissianti, fatti di acciaio o uffici con vetrate, con qua e là qualche accenno di archeologia industriale. Accorgimenti formali per nulla banali che permettono al grande schermo di esaltare le caratteristiche di un film che sa lavorare sulla potenza delle immagini, ma che sarebbe certamente sbagliato ridurre ad un prodotto soprattutto ben confezionato.

È però il sintomo dell’abilità con cui DuVernay ha costruito il suo rabbioso, approfondito, sentito j’accuse sull’ambiguità dell’emendamento costituzionale citato dal titolo (lo ricordiamo: “La schiavitù o altra forma di costrizione personale non potranno essere ammesse negli Stati Uniti, o in luogo alcuno soggetto alla loro giurisdizione, se non come punizione di un reato per il quale l’imputato sia stato dichiarato colpevole con la dovuta procedura”). La tesi è che il testo lasci volontariamente ampi margini d’azione a chi detiene il potere: d’altronde, accanto all’isolato quanto benemerito cinismo pragmatico di Johnson (firmatario della legge sui diritti civili del ’64), l’America, nonostante la ratificazione di quella conquista, ha conosciuto le segregazioniste leggi Jim Crow che istituirono lo status per i neri di “separati ma uguali”, il programma “law and order” dell’ultraconservatore Nixon, la “guerra alla droga” di Reagan che mescolava educazione, prevenzione, punizione, detenzione.

Tutto ciò conferma il sottotesto razzista di una cultura che, sin dai tempi del fondativo e rivelatore Nascita di una nazione, ha usato il corpo del “negro” per imporre nell’immaginario la figura predatore, stupratore, criminale. Ma DuVernay non risparmia nemmeno la presidenza liberal di Clinton, durante la quale la controversa legge “three strikes”, secondo cui si finisce in galera dopo aver commesso un terzo reato, qualunque esso sia. Si arriva, allora, al cuore del problema: sottolineare il legame tra la schiavitù, abolita ma introiettata dalla nazione, e il progressivo aumento del numero di carcerati avvenuto contestualmente alle azioni politiche di cui sopra.

Fondamentale tappa nel recente e florido filone sulla storia nascosta o negata della comunità black (12 anni schiavo, The Birth of a Nation, Il diritto di contare…), 13th è una dura condanna all’industria del carcere, un sistema in cui la spunta più facilmente il colpevole ricco rispetto all’innocente povero che resta in carcere perché non ha i soldi per la cauzione, il business di lobby in grado di condizionare la politica determinando profonde conseguenze nella società (la Alec ne esce parecchio malconcia). DuVernay lavora in profondità, ricostruisce il percorso con attenzione e tensione, mantiene l’approccio dell’attivista consapevole della potenza del mezzo e dell’importanza etica del suo contribuito. Perciò 13th, che non inciampa nelle trappole del film a tesi, sembra giusto e necessario per quest’epoca di retroguardia, funestata dal sangue versato per strada dalle vittime di un odio che viene da lontano, immemore della sorte ingrata di (troppi) Emmett Till.