Accade spesso nella filmografia di un regista che alcuni film trovino il loro giusto riconoscimento solo dopo anni dal loro esordio sugli schermi, quando lo stile dell'autore giunge a completa definizione e ogni suo lavoro viene rivisto come parte di una coerente poetica di cinema. È in questa categoria di film che trova il suo posto 7 psicopatici, magmatica opera seconda di Martin McDonagh, incompresa dal pubblico ai tempi dell'uscita in sala ma anticipatrice di tutti i temi, le suggestioni e le cifre stilistiche che hanno decretato il successo di Tre manifesti a Ebbing, Missouri.

Il giovane sceneggiatore Marty, irlandese e alcolizzato, è al lavoro su un copione intitolato Sette psicopatici ma è in piena crisi creativa. Ad aiutarlo nella stesura del film vi è Billy, attore fallito che campa rapendo cani per poi restituirli ai padroni in cambio di una ricompensa, ma quando mette le mani su  Bonny, lo Shih-Tzu del sadico boss Charlie Costello, si innesca un vortice di violenza incontrollata che aiuta Marty a trovare l'ispirazione per la sua sceneggiatura. Come il precedente In Bruges, il film racconta una storia violenta di criminali e perdenti in cerca di redenzione ma ad arricchire il tutto vi è una raffinata ironia metacinematografica e una serie di allusioni autobiografiche che il drammaturgo irlandese usa per mettere in scena le tragicomiche difficoltà della scrittura per il cinema.

Il regista, attraverso il suo alter ego Colin Farrell, mette in scena con tono divertito le sue personali idiosincrasie e la sua visione di cinema, legata indissolubilmente all'America ma filtrata da durezza e cinismo tipicamente irish. Gli Stati Uniti di 7 psicopatici sono la culla di miti e archetipi a cui rendere omaggio attraverso la forza della parodia, ma al contempo sono la patria di pazzi omicidi  e disillusi che affonda le sue radici nella violenza. Attraverso un sapiente mix di humour e orrore, Martin McDonagh sfrutta i suoi strampalati personaggi per compiere un excursus dei fatti di sangue che hanno segnato la storia degli States – la  segregazione razziale, il Vietnam, l'ondata di serial killer giunta al termine della Summer of Love – e giungere a quello che è il cuore di tutto il suo cinema: l'America, come l'Irlanda, è un paese governato da un'insopprimibile desiderio di vendetta.

Il reparto attoriale è il fiore all'occhiello del film e vede, oltre a Colin Farrell, la presenza di Woody Harrelson e Sam Rockwell – entrambi candidati all'Oscar per Tre manifesti a Ebbing - , l'allucinato Tom Waits e un cameo di Michael Pitt e Michael Stuhlbarg, protagonisti di un prologo che pare il riadattamento pulp di Aspettando Godot di Beckett. A fare da padrone, però,  è Christopher Walken, iconico freak del cinema americano a cui McDonagh affida il ruolo del non violento Hans, personaggio diametralmente opposto alla Mildred Hayes di Frances McDormand: entrambi hanno perso la loro famiglia in maniera violenta, ma se Mildred affronta il lutto rispondendo al mondo con ancor più ferocia, Hans si oppone stoicamente alla violenza imperante abbracciando con serenità l'idea del martirio.

Definito dal regista uno strampalato mix di Malick e Peckinpah, 7 psicopatici diverte ed atterrisce, gioca con le convenzioni del thriller americano e nel farlo stabilisce i dettami della poetica violenta di Martin McDonagh; alla luce dell'enorme consenso di pubblico e critica per Tre manifesti a Ebbing, quella che nel 2012 veniva vista solo come una strampalata commedia pulp ritrova oggi il suo ruolo cruciale nella formazione artistica di uno dei registi più interessanti in circolazione.