Un patriarca è morto, e anche l'altro non si sente troppo bene. Una matriarca mostra intemperanze da tredicenne causa demenza senile, l'altra matriarca pure, nonostante la perfetta salute fisica. Tutti gli altri oscillano fra il depresso e lo schizzato. È dura tornare a Ventotene 28 anni dopo Ferie d'agosto (1996), e rincontrarne i personaggi in Un altro ferragosto.
Dura perché i Molino e i Mazzalupi, di nuovo in vacanza nelle due villette adiacenti dove li avevamo incontrati quasi trent'anni fa, non sono più come ce li ricordavamo. E questo, nonostante alla regia ci sia sempre Paolo Virzì, e alla sceneggiatura nuovamente Virzì e Francesco Bruni (questa volta coadiuvati dal fratello del regista, Carlo).
E così, se nel primo capitolo il politico di quegli anni si faceva sempre più personale, e durante la visione maturavamo compassione e tenerezza per quella varia umanità così difettata, ora invece usciamo dalla sala convinti che tutti siano proprio ciò che ci erano sembrati a prima vista: quelli di sinistra, un gruppo di snob supponenti, e quelli di destra, un'accolita di cafoni superficiali.
Definire relazioni e dinamiche di un ensemble vasto di caratteri non è affatto facile e necessita per forza di una sceneggiatura solidissima, dato che in poche battute e scene a disposizione per ognuno di essi occorre farne intuire personalità, stato presente e possibili sviluppi futuri: in Un altro ferragosto, più che interagire, i personaggi rimbalzano gli uni sugli altri come palline in un flipper, senza che sia ben chiaro perché a volte si sfiorino a volte si scontrino, senza che nessuno dimostri una struttura interna realmente coesa.
Non solo non ci troviamo più dalle parti della commedia all'italiana, ma oscilliamo pericolosamente fra il dramma esistenziale e le trovate da pochade (il bacio fra Laura Morante e Gigio Alberti), con varie scene madri disseminate qua e là a ravvivare un andamento stantio, senza che nessuna di esse risulti vagamente verosimile (davvero l'assalto al matrimonio degli uni da parte della combriccola degli altri, improvvisamente ricompattata?).
Le nuove generazioni, in particolare, sono ritratte non solo senza empatia, ma senza alcun vero interesse alla comprensione: c'è un gentile ultramilionario dell'hi-tech, osteggiato dal padre senza evidenti motivi; c'è il di lui marito, mai tratteggiato come una persona reale ma solo come un brutto manifesto LGBTQIA+; c'è un'influencer di rara goffaggine e di incomprensibile fama, fidanzata con un uomo senza qualità; ci sono una che sa solo ridere e un altro che sa solo mangiare, oltre ad avercela con la mamma.
Gli attori sullo schermo sembrano reagire di conseguenza all'incerto scenario, decidendo di gestirsela ciascuno a modo suo: chi recita sui toni del farsesco (Vinicio Marchioni, Christian De Sica), chi del drammatico (Laura Morante, Silvio Orlando), chi del malinconico alla Il grande freddo (Sabrina Ferilli, probabilmente la migliore sullo schermo), molti nel dubbio restano sull'indeciso.
Forse per demarcare una differenza rispetto a tanta altra commedia italiana odierna da cassetta, Virzì filma il tutto con moltissima camera a mano, muovendosi da un gruppo di soggetti all'altro in piani sequenza coreografati, concedendosi il guizzo di alcuni montaggi interni per mettere l'accento su elementi di sfondo. L'effetto finale, però, più che autoriale, sconfina sorprendentemente verso territori mucciniani. E i molteplici inserti dal Ferie d'agosto originale, a rimarcare i parallelismi fra passato e presente, non sono forse la soluzione più elegante si sia mai vista sullo schermo. Delle scene in stile neorealista coi padri e le madri della nazione al confino, meglio non dire.
Chissà, forse il bacio fra Laura Morante e Christian De Sica resterà negli annali del cinema italiano come epocale punto di incontro – che mai avremmo visto arrivare – fra film generazionale di sinistra e cinepanettone (oddio, che Un altro ferragosto non abbia avuto la tentazione di essere proprio questo, in fondo?), ma è una visione della quale avremmo anche potuto fare a meno.