"Scende la luna; e si scolora il mondo" (Giacomo Leopardi, Il tramonto della Luna).

Nelle prime immagini del film il volto di Ellen Hutter (Lily-Rose Depp) è illuminato dalla luce lunare che definisce la figura muliebre avvolta da una bianca veste e la sua ombra insieme alle forme degli oggetti (anche sacri) che arredano e caratterizzano la stanza in cui è dormiente. Il colore (vivo) blu notte che contrasta un pallido incarnato evoca i non (morti) colori bianco e nero che sono all’origine della narrazione cinematografica del vampiro Nosferatu.

Il bagliore della luna rischiara simbolicamente il cupo inconscio individuale e regola i flussi/moti delle acque (e degli animi). Secondo ancestrali credenze astrologiche la luna è la rappresentazione della sfera emotiva/intuitiva femminile e per gli alchimisti come Paracelso, citato dal professor Albin Eberhart Von Franz (ispirato da esoteriche teorie), è associabile al cervello che “riflette” con fredde sfumature in in(de)finiti processi che tendono all’armoniosa corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo (“Il male nasce dentro di noi o viene dall’aldilà?”).

Il mistico accademico è interpretato da Willem Dafoe che in The Lighthouse sentenziava: “la luce è affar mio”. L’inquietante attore statunitense si conferma “luci-ferino (portatore di luce, ergo di senso)” e, non per caso, il regista Eggers gli fa ri-ferire parole essenziali/esiziali che svelano la natura metalinguistica dell’opera: “la pupilla non si contrae alla luce”.

Pupilla è un termine “stupefacente” e, da un punto di vista etimologico, significa fanciulla/bambola oltre che indicare anatomicamente l’orifizio dell’occhio, al centro dell’iride, che consente la penetrazione dei raggi luminosi. La protagonista è una gentildonna che, in stato ipnotico, diventa una marionetta (la giovane Depp ha studiato passi di danza buto che si distingue per movimenti lenti e una mimica spettrale) in mano ad un demone e, immersa nel buio, pre-vede, apprende lo scenario imminente e si sacrifica in nome di una romantica estasi.

Il cinema di Eggers si nutre di elementi primordiali in opposizione, di archetipi (in questo caso il manifesto paradigma è il Nosferatu di Murnau) da vampirizzare (la progressiva desaturazione della palette cromatica è uno dei segni estetici più evidenti).

All’esile, ossuto, a volte diafano aspetto di Ellen (che ricorda la levità e l’emaciato fisico di Thomasin/Anya Taylor-Joy in The Witch) si contrappone quello poderoso, lacerato, opaco di Orlok (con ingombranti baffi che richiamano il ritratto di Vlad III di Valacchia, denominato “l’impalatore” per le sue pratiche sanguinarie, nobile rumeno affetto da gravi patologie oculari e respiratorie).

Sono due entità che si scontrano matericamente, sessualmente (Eros e Thanatos) e si fondono in un pittorico finale che è memore delle dense e suggestive tonalità (espressionistiche e psicanalitiche) del dipinto La morte e la fanciulla di Egon Schiele, tormentato artista austriaco, attratto da tenebrose introspezioni e da malati amplessi. Lo sguardo raffinato e la fotografia chiaroscurale di Jarin Blaschke contribuiscono a rendere gli umori dei soggetti in scena e a stratificare i paesaggi che sembrano mutare forma (e tempo) in sensuali e rarefatte “incisioni”, commentate dal perturbante tessuto sonoro di Robin Carolan.

L’arte di Eggers crea sospese atmosfere che non temono insinuanti e audaci raffronti tra leggenda e (iper)realtà. L’estenuante e secolare conflitto tra scienza e fede, razionalità e istinto si risolve tra/nei corpi e il mito/culto egiziano di Iside (menzionato nella trama), la dea della magia che accompagnava i morti nel passaggio alla vita ultraterrena, è emblematico di questa eterna transizione che coinvolge i personaggi principali (l’ubiquo Orlok, l’isterica/cangiante Ellen e il marito Thomas, scisso nei suoi doveri coniugali).

Mutevole è anche il registro della pellicola, che viene annoverata tra gli elevated horror ma evita le ormai risapute dinamiche e i sussulti (im)prevedibili delle regole di genere per stingere la paura e il ribrezzo in spirito antropologico (atavici rituali) e poetico desiderio (dolci ma non rasserenanti rimembranze e declinazioni sentimentali).

Per (in)visibili contraddizioni questo Nosferatu può irritare o annoiare ma abbandonarsi alla visione (“accettare l’oscurità”) come il vampiro tra le braccia dell’infida amante, può risultare affascinante in attesa della fatale (ma anche salvifica) Aurora (naturalmente filmata da Murnau).