Vivere viene annoverato tra le opere realiste del maestro come Una meravigliosa domenica, L’angelo ubriaco e I bassifondi, risulta una summa della poetica umanista che permea l’intera opera cinematografica di Kurosawa.
Vivere, grazie ad un linguaggio asciutto e minimalista e a un’impronta registica trasparente, si fa al tempo stesso apologo e riflessione sulla sconfitta e la rassegnazione umana e sguardo di speranza verso una società migliore. Temi fondamentali per il Giappone del secondo dopoguerra che guardava a una possibile rinascita, ma il vero malessere esistenziale rappresentato nel film si polarizza attorno al sistema burocratico e impiegatizio, un sistema gerarchizzato e stagnante che mina la salute psicofisica degli individui.
Protagonista è Watanabe (Takashi Shimura misuratissimo) capoufficio del comune che per trent’anni ha condotto una vita grigia e priva di scopi, fino a quando scopre di avere un tumore allo stomaco e decide finalmente di iniziare a godere della vita prima di dirle addio.
Il film si apre con l’immagine della radiografia allo stomaco del protagonista che ci mostra il suo male, mentre una voce over la commenta, un incipit decisamente originale e spiazzante per il 1952, a questo prologo segue una diegesi lineare che ci racconta al presente quello che decide di fare Watanabe dopo aver scoperto di essere malato terminale. Questa parabola esistenziale viene raccontata con toni asciutti e realisti ma senza rinunciare ad alcuni simbolismi atti a spostare lo sguardo da una visione oggettiva (la critica al sistema burocratico, le condizioni sociali del Giappone postbellico) a una soggettiva, la percezione interiore che ha il protagonista (e al tempo stesso l’autore) verso il mondo.
L’icastica sequenza della pallina del flipper che rappresenta la vita di Watanabe in balia degli eventi, il cappello bianco quale simbolo di cambiamento interiore e congedo con la vita, sono tutti elementi dalla forte valenza simbolica, atti a rafforzare l’intimismo e la complicità di sguardo con il personaggio e ciò che gli accade. Inoltre Kurosawa dopo una narrazione lineare, complica la diegesi inserendovi un lungo flashforward (che ci mostra quello che accadrà in futuro) e numerosi brevi flashback per ricostruire a posteriori (dopo la morte del protagonista), la filiera burocratica che ha portato alla realizzazione del parco giochi e se il miracolo urbanistico è avvenuto proprio grazie a Watanabe.
Ikiru (titolo originale con il medesimo significato), ispirato alla famosa novella La morte di Ivan Il'ič di Tolstoj, oltre ad essere uno dei punti apicali dell’intera filmografia di Kurosawa risulta essere anche uno dei massimi capolavori cinematografici sul tema della vecchiaia insieme a Il posto delle fragole di Bergman e a Umberto D. di De Sica, in grado di elaborare il concetto di caducità della vita e al tempo stesso carpirne il suo più profondo e imperscrutabile significato.
Recentemente è stato rifatto in lingua inglese con Living, diretto da Oliver Hermanus e interpretato da Bill Nighly, un finissimo remake che però privilegia i toni melodrammatici e sentimentali allo sguardo socio-antropologico che invece applica Kurosawa, il quale riesce all’interno del proprio nitore stilistico (al massimo della sua maturità registica) a richiamare ad altri grandi cineasti.
Lo sguardo verso la condizione femminile tipica di Mizoguchi, attraverso il personaggio della giovane Toyo, le dinamiche familiari care a Ozu che si condensano nel rapporto tra Watanabe e il figlio Mitsuo e l’apologia sull’umanità all’interno di una società che sta cambiando che non può non richiamare Capra. Vivere è la sintesi precisa di tematiche universali e influenze cinematografiche precedenti, messa in scena con profonda semplicità, grande forza espressiva ed estetica (straordinario il bianconero di Asakazu Nakai) ed economia narrativa.
Un capitolo unico e irripetibile della cinematografia mondiale.