L’adagio è noto: portare sullo schermo le vite di scrittori e letterati è impresa sdrucciolevole e destinata al fallimento, figuriamoci poi se si parla di poeti. La lirica eccede per definizione la norma linguistica, e le immagini rischiano di ridursi alla tautologia, al doppione inerte della parola. Ci sono riusciti, tanto per dire, due come Pablo Larraín (Neruda) e Jane Campion (Bright Star), e ci prova Terence Davies che, dopo essersi cimentato già nel 2001 con un adattamento radiofonico di Le onde di Virginia Woolf, concepisce un ambizioso biopic sulla poetessa americana Emily Dickinson.

Figura oltremodo sfuggente, Emily visse ignorata dai contemporanei e reclusa nella casa di famiglia in Massachusetts, dove scrisse quasi 1800 componimenti di spiazzante modernità in un idioletto semplice nel lessico, libero nell’uso delle maiuscole e della punteggiatura, coerente nei temi: la natura, gli affetti, la morte, l’eternità. Ed è proprio eternity il termine più ricorrente in questo film parlatissimo ed elegante, che ingrana con un primo atto di dialoghi brillanti e sagaci (a dispetto del temperamento melanconico, l’ironia pungente è uno dei tratti inconfondibili della poetica di Dickinson) e poi lentamente scivola, come la vita della sua protagonista, in un limbo di claustrofobico pessimismo. In cui a prendere il sopravvento sono le ossessioni funeree di un animo travagliato, vivificato da una Cynthia Nixon virtuosistica che passa dal declamare versi all’inscenare crisi convulsive di raro mimetismo.

Le inquietudini morali, il rapporto burrascoso con dio e i suoi ministri, prendono così corpo in un universo cinematografico personale e intelligente, illuminato dalle luci tremolanti delle candele, ora ieratico nell’esplorare le possibilità espressive del campo/controcampo, ora più ardito nelle lente panoramiche circolari o nei fluidi movimenti di macchina che trasformano un primo piano in un plongé. Uno stile preciso e ricco di invenzioni figurative, in cui lasciano perplessi solo le CGI audaci – in una lenta carrellata in avanti, i personaggi si trasformano gradualmente nelle loro versioni invecchiate, interpretate da un cast completamente rinnovato – e una sequenza di freeze frame a raccontare la Guerra di Secessione americana, con tanto di didascalie esplicative sul numero di vittime. Ma sono peccati che siamo più che disposti a perdonare a un cineasta che, dopo un esordio fulminante (Voci lontane... sempre presenti, 1988), ha distillato nei decenni a seguire opere sincere e sentite, sensibili alle trepidazioni di un’umanità fragile.