Tra i tanti interrogativi sul punto di diventare desideri che lascia dietro di sé il nuovo film, soavemente spiazzante, di Hong Sang-soo (Orso d’argento qui alla Berlinale 2024, il quarto per il regista) ce n’è uno a vocazione alcolica: che cos’è il makgeolli? La protagonista, una donna francese senza nome che vaga attraverso un’imprecisata città sudcoreana, confessa ai suoi esterrefatti interlocutori autoctoni di berne almeno una o due bottiglie al giorno – in effetti, nel corso della mezza giornata con cui dovrebbe coincidere la temporalità del film, ne svuota diversi bicchieri con candido piacere, e invita gli altri ad imitarla.

Come accade per quasi tutto quel che fa, e proprio perché non si capisce perché lo faccia, viene loro spontaneo bere con lei, mentre si chiedono quale passato l’abbia portata in Corea. La figura al centro di A Traveler’s Needs non sembra però fatta di trascorsi e di ragioni, come sempre ci si aspetta dagli sconosciuti incontrati per caso, ma piuttosto di domande inattese, di iniziative senza scopo, di impulsi gentili. Isabelle Huppert (alla terza prova col regista dopo In Another Country e La caméra de Claire) le infonde una complicità imprendibile e una sensibilità leggermente alienata che finiscono per trasmettersi a tutte le situazioni del film, delicato e malinconico come la fine di un pomeriggio trascorso al parco.

La viaggiatrice del titolo è appunto questa francese con poche necessità, arrivata con niente più che una valigia in un paese straniero dove non conosce nessuno e non ha casa né lavoro. Passa le sue giornate in un parco, stesa a prendere il fresco su una roccia e a bere un vino lattiginoso. Al parco ha incontrato un ragazzo che, diventato suo amico (l’unico, forse), ha deciso di ospitarla nel suo appartamento.

Per guadagnare qualche won e contribuire alle spese domestiche la donna comincia a dare lezioni di francese a una ragazza e a una coppia sposata secondo un metodo di insegnamento da lei ideato appena qualche giorno prima: a partire da ricordi, aneddoti o passioni (tutti i personaggi, lei compresa, suonano uno strumento musicale) incalza le persone con domande intime, quasi invadenti, quindi ne traduce a modo suo le risposte in francese su alcuni cartoncini da imparare a memoria e registrare su cassetta.

Tutto ciò non viene propriamente raccontato ma desunto da una serie di bizzarri e divertentissimi dialoghi ripresi da una camera fissa che si concede al massimo qualche zoom o qualche scarto laterale per seguire gli attori, cioè non si distrae mai dal materiale umano. Tranne che in un caso: dopo aver salutato la coppia la francese si allontana con la sua andatura da giunco a pelo d’acqua e quando la macchina da presa torna sulla scalinata da cui stava scendendo, lei sembra scomparsa all’improvviso, troppo rapidamente anche secondo i due coreani. Questa donna, che a chiunque appare anzitutto strana, appartiene magari a un mondo diverso dal nostro, il solito. Non è come noi – si dicono gli altri personaggi (e con loro gli spettatori). Ma non è questo ciò che pensiamo sempre di fronte all’altro, all’estraneo?

Attraverso un digitale lo-fi che predilige la luce naturale e l’improvvisazione tra gli attori Hong fa vivere palpabilmente gli stati d’animo che accompagnano il riconoscimento o il rifiuto (è il caso della madre del ragazzo) dell’alterità, e ancor più la tenerezza imprevista che una mano sulla spalla o la lettura condivisa di una poesia possono ispirare. La ripetizione, con minime ma significative variazioni, di battute e atteggiamenti fa parte di quella maieutica dell’emotività illustrata anche dalle lezioni di francese.

Di fronte all’imperante dispersione umana – si intuisce che la francese cerca riparo dall’infelicità – c’è bisogno di reimparare a esprimersi e capirsi, trovando un lessico sentimentale comune che travalichi i concetti abituali di persona e persino di tempo. Il montaggio per puri accostamenti stabilisce uno stato di quiete in cui le immagini riposano senza gerarchie cronologiche, indifferenti alle convenzioni della narrazione cinematografica, semplicemente nella loro presenza di immagini: così la scena del primo incontro al parco tra la donna e il giovane coreano precede quella del loro ritrovamento finale.

Non si tratta tuttavia di un flashback tradizionale, piuttosto del modo in cui funzionano gli esseri umani secondo Hong, che da qualche anno, oltre a scriverli e dirigerli, cura la fotografia, il montaggio e la musica per i suoi film. Anche grazie al suo equilibrio artigianale A Traveler’s Needs mostra, anzi soprattutto permette di sentire cosa significhi per due sconosciuti smettere di esserlo, cosa accade quando una reciproca estraneità diventa una convergenza di solitudini.

Mentre arriva a fornire comunque qualche indizio utile a rispondere al quesito sul makgeolli, nel corso del suo trentunesimo film Hong pone dunque altre fondamentali domande: che cos’è una persona, e come cambia attraverso il tempo? Le stesse intorno a cui ruota un altro film veramente notevole visto nei giorni finali del Festival: Filmstunde_23, ultima grande lezione di cinema di Edgar Reitz nella forma di un documentario sul (ri)conoscimento del sé attraverso il girato, rivisitato come unico deposito possibile della memoria collettiva.

Ma, per due cineasti parimenti interessati a ragionare su cosa significhi riprendere un essere umano e, seppure con strumenti diversissimi (Reitz sta a Hong come il macro al microscopico), a misurare nel cinema una durata esistenziale altrimenti impercettibile nella cosiddetta realtà, questa coincidenza non è affatto un caso.