Un viaggio nel tempo e nello spazio, attraverso quattro cortometraggi che ci trasportano nella Georgia occupata dai sovietici. Tuji di Ioseliani (1964) e Khabazebi di Rachvelishvii (1970) sono due documentari sul tema del lavoro. Nel primo assistiamo alla tipica giornata degli operai di un’acciaieria, a cui il film è dedicato. Gran parte della propaganda sovietica (e non solo, basti pensare a Lo spirito più elevato di Kurosawa, girato durante la seconda guerra mondiale) si concentra sull’importanza e la bellezza del lavoro, anche quello più pesante, e il lavoratore è solitamente mostrato come instancabile e gioioso. Non è quello che vediamo in Tuji, dove la macchina avvolge e incastra gli operai, sudati e affaticati. La loro condizione viene mostrata anche con sottile ironia nei momenti in cui “contrattano” fra i loro bisogni e gli orari lavorativi, asciugandosi il sudore con una grossa ventola o cuocendosi il pranzo sul pavimento rovente. In Khabazebi invece vediamo gli impastatori del pane che, mentre la città dorme, si cimentano in vere e proprie prove di forza e acrobatica prima di tornare a casa, a riposare, mentre tutti gli altri si svegliano. In Mekvle di Chokheli (1981) il tema principale è invece l’assenza dell’uomo in un villaggio abbandonato in cui risuonano gli echi di chi vi ha vissuto.

La selezione dei corti e il loro ordine sono un valore aggiunto di non secondaria importanza. Ad accomunare tutti questi lavori è un uso originale del montaggio sonoro, spesso asimmetrico rispetto all’immagine, o comunque manipolato per infondere emotività e significato alle opere. In Tuji il ritmo musicale è generato dai macchinari e dal lavoro degli operai, in una sorta di sinfonia dove organico e inorganico si compenetrano. A essere privati della voce sono invece gli operai, di cui vediamo il labiale ma non udiamo un suono. Si viene a creare un interessante contrasto col cortometraggio dei fornai che, pur spossati, a lavoro compiuto si radunano soddisfatti a brindare e chiacchierare amabilmente, come a suggerire che il lavoro industriale disumanizza, mentre quello artigianale appaga. Notevole lavoro sul suono anche in Mekvle, all’inizio del quale udiamo degli spari che separano le inquadrature del villaggio deserto. Vediamo quindi lo stato di abbandono a seguito di quegli spari ma sentiamo le voci che li hanno preceduti: auguri di buon anno, funzioni religiose, rapporti amorosi (scandaloso per l’epoca). Un turbinio insomma di passato e presente uniti dagli “spari di montaggio”.

Nell’ultimo corto, forse il più poetico, Arabeskebi pirosmanis temaze di Parajanov (1985), i quadri del pittore a cui è dedicata l’opera prendono vita e il linguaggio cinematografico plasma e amplifica la loro portata espressiva. Sensibile alla cultura artistica georgiana (dirigerà di lì a poco Asik Kerib), Paradzanov usa la cinepresa per commentare, analizzare e collegare fra loro le opere di Pirosmani, in un arabesco che mostra come l’arte generi vita quanto la vita generi arte. Quinto regista, invisibile ma non meno importante, è chi ha organizzato la rassegna perché, come detto, gran parte del fascino e del significato che queste opere trasmettono è dovuta alla dialettica che si instaura fra esse. Potremmo ad esempio notare come alla progressione temporale, all’avvicinamento alla fine dell’URSS, coincida un atteggiamento sempre più ottimista, sognante, espressivamente complesso. L’arte si sostituisce al sudore, sembra suggerirci questa rassegna su una cinematografia nazionale ancora tutta da ritrovare.