A pensarci bene, le ultime interpretazioni di Albert Finney rappresentano forse la testimonianza più compiuta della grandezza di questo attore, scomparso ieri a 82 anni. Senza adagiarsi sulla comoda immagine rassicurante o burbera del vecchio patriarca come hanno fatto altri colleghi della sua generazione, Finney ha saputo lavorare con estrema sapienza – e misura: appena quindici partecipazioni negli ultimi vent’anni – sul concetto di figura paterna, anche quando ne incarnava un surrogato (il padre della patria Winston Churchill in Guerra imminente, lo zio di Un’ottima annata, l’addestratore di The Bourne Legacy, il guardiacaccia di Skyfall).

Due film fondamentali per il terzo millennio come Big Fish (per chi scrive, il capolavoro di Tim Burton) e Onora il padre e la madre (clamoroso finale di partita di Sidney Lumet), due trattati sul rapporto tra padre e figli, sono incardinati sulla sua figura titanica. In modo esplicito nel primo, dove presidia il crinale tra finzione sognata e mirabolante realtà che garantisce la credibilità di un’avventura nell’illusione della vita, trasformandosi tra le braccia del figlio nel prodotto delle sue stesse storie. Più inquietante e complesso nel secondo, in cui impersona l’idea stessa di impotenza in quanto disperazione, pontefice della fine del mondo che officia una nerissima trenodia sulla famiglia, con un epilogo devastante che sembra chiudere in negativo il cerchio di una carriera – quella di Finney – iniziata scontrandosi contro tutto e tutti.

Se la grandezza dell’ultimo Michael Caine si vede nell’eleganza sorniona del suo immenso sguardo liquido che si affaccia felicemente in qualsiasi produzione, quella del parco Finney la si ritrova invece nei rari exploit. Un po’ come Tom Courtenay, suo partner nel memorabile Il servo di scena, un monumento alla (loro) recitazione dove Finney è un dispotico e vulnerabile capocomico sul tempestoso viale del tramonto. Un incontro inevitabile, quello tra due dei volti più emblematici del Free Cinema. Gioventù, amore e rabbia. Sabato sera, domenica mattina: un manifesto dissacrante, vitale, inquieto, che identifica il suo orizzonte nell’affascinante e teso protagonista, all’epoca una magnifica rivelazione destinata a codificare un vitale carattere anti-borghese.

E poi Tom Jones, la consacrazione a star, che a rivederlo oggi impressiona per la scatenata spavalderia con cui la scattante regia di Tony Richardson si adatta allo spirito anarchico di un adorabile bastardo. È il primo Oscar mancato di Finney. In gara c’era un altro capofila della new wave britannica, l’irlandese Richard Harris per Io sono un campione. Vinse Sidney Poitier. Altre quattro volte ha dovuto soccombere. La seconda per Assassinio sull’Orient Express: a differenza di Peter Ustinov, più mondano e disinvolto, il rigido e risoluto Finney intuisce il senso della maschera, dando una lezione della quale ha certamente tenuto conto Kenneth Branagh con i suoi assurdi mustacchi. L’ultima per Erin Brockovich, dove asciuga d’ogni retorica il suo integro avvocato. In mezzo, la candidatura per Il servo di scena. E soprattutto per Sotto il vulcano, primo atto della trilogia testamentaria di John Huston.

Ecco, dovendo scegliere un titolo per celebrare il genio recitativo di Finney (per quanto da queste parti si abbia più di un debole per la meravigliosa variante mélo della commedia romantica Due per la strada e per il meno fortunato I ricordi di Abbey, in cui è un insegnante in declino), non sapremmo trovare miglior sintesi di questa spietata discesa agli inferi, l’autodistruzione di un ex console britannico completamente alcolizzato, sospeso tra occasionale lucidità e disperato stordimento, ferito a morte dalla vita e sedotto dalla morte. Un’interpretazione mastodontica, incastonata in un percorso eclettico e anticonvenzionale.