Prende avvio la 15a edizione del Gender Bender, e le danze si aprono con After Louie di Vincent Gagliostro, già presentata al London LGBT Film Festival. Quest’opera prima dal piglio sicuro comincia proprio laddove terminava 120 battiti al minuto di Robin Campillo, con la breve parentesi amorosa tra Sam, cinquantenne ex attivista di Act Up, e Braeden, che ha una relazione aperta con il compagno sieropositivo. Ma Sam ha 55 anni e Braeden “quasi 30”, Sam abita in un attico di Manhattan e Braeden in un monolocale di Brooklyn e, soprattutto, Sam ha vissuto sulla propria pelle tutte le battaglie civili dell’associazionismo gay newyorkese, e non può credere che la generazione successiva alla sua sia così ripiegata nel privato, placidamente disinteressata, indifferente ed esclusa rispetto a una comunità LGBT ormai disgregata.
Il conflitto – prima accennato, poi raccontato, infine urlato – è schematico: nel film di Gagliostro, che presumibilmente riversa su Sam molte notazioni autobiografiche (come lui è tra i membri fondatori di Act Up nel 1987, come lui è artista affermato esordiente al cinema), lo scontro generazionale fagocita ogni interazione umana tra i protagonisti fino a divenire il perno di una dicotomia pervasiva. Che si articola ora nel contrasto tra borghesia e disoccupazione, ora nel ruolo attivo o passivo nel rapporto sessuale, infine nella dualità analogico/digitale, il primo testimonianza materica del passato (i filmati amatoriali del compagno morto di AIDS, su cui Sam sta girando un documentario di found footage), il secondo attualizzazione di una contemporaneità anemica e anaffettiva. D’altronde questo conflitto tra impegno e indifferenza sembra abitare anche, fisicamente, nella casa di Sam, con l’efficace intuizione dei ritagli degli slogan di Act Up che campeggiano a mo’ di tappezzeria in un loft incredibilmente hipster, a segnalare l’irrecuperabile anacronismo di certi movimenti civili di fronte a una comunità omosessuale aggiornata ai tempi di Grinder, che va ai vernissage di arte contemporanea solo per ingollare Martini.
Gli altri temi sollevati sono tutti buoni e giusti – il matrimonio gay è una conquista o un adeguamento a un costrutto culturale eteronormativo? Qual è la posizione morale dei sex workers? È giusto che un uomo bianco altoborghese possa parlare di white privilege? – ma non possiamo ignorare l’impressione che siano stati programmaticamente inseriti nello script – giacché in After Louie questi temi sono esplicitamente verbalizzati, mai raccontati per immagini – per compiacere se stessi e un pubblico con un’infarinatura di queer theory e Judith Butler sul comodino.
L’esito forse paradossale è che, spogliatosi di un registro più estetizzante e autocompiaciuto, Gagliostro riesca a convincere di più proprio nel raccontare la giovane coppia di Braeden e il suo compagno, rei di aver abbandonato l’attivismo ma magnificamente vitali nella loro relazione fatta di gesti quotidiani, piccoli compromessi e amori puri.