Si parla di Clemente Fracassi come colui che ha permesso a Federico Fellini di portare a termine La dolce vita. Consumato uomo di cinema, era il produttore esecutivo di quel capolavoro. Ma con qualche ricerca anche superficiale si scopre Fracassi ovunque, in film abbastanza diversi tra loro. Per quattro volte ha fatto il regista, quasi sempre con un occhio rivolto ai buoni incassi forse per confermarsi persona affidabile o per una certa passione per il cinema popolare. Suo terzo lavoro, Aida, per esempio, è puro cinema popolare, il corrispettivo sul grande schermo di un reader’s digest. Componente, quest’ultima, evidente presso un pubblico che conosce almeno un minimo l’opera di Giuseppe Verdi.

Tuttavia, l’operazione non è affatto rivolta ai patiti del genere: è piuttosto un incrocio tra l’ambizione di un kolossal internazionale e l’espansione dell’universo dei fotoromanzi. Negli anni in cui la rivoluzione tecnologica del colore stimola la produzione di film che possano far rientrare quanto più possibile l’ingente investimento (d’altronde chi fu il primo a battezzare l’esperimento del colore se non Totò?), il ricorso all’opera lirica, eccellenza del nostro patrimonio culturale, avviene anche per capitalizzare una comfort zone, tale è la presa del genere non solo in Italia. E così, mentre Carmine Gallone si reinventa specialista del settore tra Cavalleria rusticana e Madama Butterfly, uscendo dalla rigidità del film-opera con esperienze più ariose come Casa Ricordi (per non parlare del clamoroso Giuseppe Verdi di Raffaello Matarazzo, dove le opere glossano la vita del compositore), Fracassi gioca la carta di Aida.

Condensando l’opera in poco più di un’ora e mezza, con raccordi delegati a una voce narrante, Fracassi dirige una macchina da guerra da interpretare attraverso più chiavi di lettura. Una di queste è l’esercizio, poiché tutti coloro che cooperano al film si misurano con qualcosa di nuovo, facendo poi tesoro dell’esperienza. La possibilità data dal magnifico Ferraniacolor permette a Piero Portalupi (assistito da Pasqualino De Santis) di studiare quei cromatismi scarlatti e turchesi che lo faranno diventare un maestro della fotografia a colori negli anni Cinquanta. Dentro un quadro che poco può valorizzare gli ampi spazi, Flavio Mogherini inventa soluzioni scenografiche capaci di costruire fughe prospettiche che amplificano l’effettiva estensione, collaborando con Portalupi nella definizione di esterni assolutamente improbabili e dunque perfetti. E Maria De Matteis (che forma l’allievo Piero Tosi), la più grande delle nostre costumiste, purtroppo abbastanza dimenticata, esplora esotismi ora attendibili ora suggestivi per fornire agli attori la giusta dimensione nella quale esprimere i caratteri dei personaggi.

Un’altra chiave è la recitazione: se l’unica a vantare il nome in solitaria è la canadese Lois Maxwell nei panni della cattiva Amneris, in un cast di pesci lessi trionfa Sophia Loren, non tanto per convinzione o bravura (a dire il vero pare un po’ impacciata con la pelle marrone) quanto per la naturale presenza scenica e, soprattutto, una prova di grande professionismo nel rendersi credibile con la voce di Renata Tebaldi. E, sì, non si crede un attimo a lei principessa etiope ridotta a schiava, ma si capisce benissimo l’ambizione, la disciplina, l’istinto che la faranno diventare la nostra attrice più famosa nel mondo.