La macchina da presa posizionata su una gru che attraverso la sala da ballo di un albergo stringe sul volto del colpevole (Giovane e innocente, 1937), la carrellata dall’alto che plana sul dettaglio della chiave stretta nel pugno di Ingrid Bergman (Notorious – L’amante perduta, 1946), il fascio di luce che colpisce le forbici impugnate da Grace Kelly nel disperato gesto di autodifesa (Delitto perfetto, 1954), il particolare delle dita di Janet Leigh moribonda che afferra la tenda della doccia (Psyco, 1960). Queste sono alcune e sicuramente le più banali delle innumerevoli immagini che il genio di Alfred Hitchcock ha consegnato agli ammiratori e alle generazioni di cinefili che ancora oggi apprezzano, studiano e approfondiscono l’arte di un uomo “totalmente votato all’immagine in movimento e alle emozioni compulsive dello spettatore”[1], capace di unire tecnica ed estro creativo.

Se in effetti Hitchcock appartiene al pantheon dei più famosi registi del circuito statunitense classico, forse il più rinomato e riconoscibile grazie ai suoi fulminei camei che ne hanno costruito un’immagine pubblica goliardica e brillante, senza dimenticare le interessantissime interviste rilasciate a giornali e riviste specializzate, i temi che costellano la sua filmografia possono essere analizzati da prospettive nuove, in un’esegesi in continuo aggiornamento che tiene conto delle sue qualità di professionista e di uomo.

La rivalutazione dei suoi film operata dai “giovani turchi” dei Cahiers du cinéma da metà anni Cinquanta aveva già evidenziato i suoi tòpoi narrativi e iconografici, dallo humour alla lotta bene/male, dalla suspense alla doppiezza umana, dalla figura femminile alla teatralità, tracciando percorsi interpretativi di profondo valore che sono pagine di critica inestimabili.

Per esprimere questi temi Hitchcock è ricorso a un linguaggio la cui logica risiede nell’efficace contrapposizione delle immagini, frutto di un’assoluta padronanza del mezzo, che negli ultimi cinquant’anni è stata omaggiata, citata, replicata addirittura fotogramma per fotogramma nel remake shot-for-shot di Gus Van Sant del 1998, tanto dai registi delle leve successive (Scorsese, Spielberg, de Palma fino ad Almodóvar e Tom Ford) quanto dai colleghi – non a caso si è ricorsi spesso all’aggettivo “hitchcockiano” per definire alcune atmosfere di opere come Dietro la porta chiusa (1948) di Lang, Niagara (1953) di Hathaway o Testimone d’accusa (1957) di Wilder.

Pur marchiata da una firma inconfondibile, la sua costruzione di universi ha perseguito un modus operandi che si è rivelato di estremo successo, ossia la confezione di prodotti altamente commerciabili nella società dei consumi e dell’intrattenimento del ventesimo secolo, da un lato in ossequio ai principii del modello classico (motivazione, chiarezza, drammatizzazione), dall’altro lato in un’incessante esplorazione di tematiche, simbologie e iconografie. Lo stile di Hitchcock, in cui “si fondono due tradizioni classiche divergenti, quella di Murnau (il movimento della macchina da presa) e quella di Ejzenštejn (il montaggio)”[2], non ricorre a estetismi di superficie ma ragiona sul potere dell’immagine sul grande schermo, sulla potenza intrinseca della pellicola che stimola la mente e il corpo del pubblico in un gioco di meta-cinema e auto-referenzialità. 

Quella di “maestro del brivido” a ben vedere è un’etichetta in parte limitante nei confronti di un metteur en scène che ha saputo inanellare un caleidoscopio di narrazioni allo stesso tempo immediate e complesse in cui i dettami del cinema muto si declinano attraverso lo storytelling della Golden Age hollywoodiana. Le turbolenze orchestrate da Hitchcock nella raffigurazione delle sue eroine, per esempio, seguono i canoni narrativi a lui congeniali ma scavano nell’interiorità disseminando rinnovati stati di euforia nell’inconscio collettivo: il senso di inferiorità di Joan Fontaine in Rebecca - La prima moglie (1940), la delusione di Teresa Wright ne L’ombra del dubbio (1943), il tormento irrisolto di Tippi Hedren in Marnie (1964), disegnano in questo senso una mappa dell’angoscia cui è costretto il cittadino moderno e l’essere umano in generale.

Sovvertendo la lineare struttura deduttiva del giallo, Hitchcock ha preferito sempre ingabbiare lo spettatore in uno stato di febbricitante interesse, inserendolo all’interno della diegesi a livello di co-protagonista: dagli sperimentalismi di Nodo alla gola (1948) e Il peccato di Lady Considine (1949), insuccessi commerciali ma magistrali nelle ricercate operazioni di découpage, passando per La finestra sul cortile (1954), manifesto del côtè di perversione del regista ma anche smascheramento del voyeurismo quale condizione primordiale e imprescindibile per il godimento nella fruizione cinematografica, il maestro inglese si è consegnato infatti quale prestigiatore che ha saputo fare della psicologia degli spettatori il cuore del proprio mestiere, con ironia e beffarda genialità.

Da questo punto di vista, nel suo apocalittico nonsense di minaccia che incombe parossistica sull’umanità, anche un lavoro suggestivo come Gli uccelli (1963) conferma la tendenza del cinema di Hitchcock a creare trucchi di magia diretti al coinvolgimento emotivo, fisico e intellettuale delle persone sedute nel buio della sala, inconsapevoli di quanto un accendino, una tazzina da caffè, una doccia o altri oggetti e ambienti apparentemente innocui possono essere in realtà pericolosi, in un binomio di terrore e fascinazione indissolubile.

[1] Cfr. Thomson David, A Biographical Dictionary of Film, Londra, André Deutsch, 1994.

[2] Cfr. Sarris Andrew, The American Cinema. Directors and Directions 1929-1968, New York, Dutton, 1968.