La settantanovesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia si è conclusa con l’assegnazione del riconoscimento più importante al film di Laura Potras, All The Beauty And The Bloodshed. Una scelta spiazzante da parte della giuria presieduta dall’attrice Julianne Moore, che premia un documentario dal taglio ibrido, tra la biografia e il reportage d’inchiesta. La vita intensa della fotografa Nan Goldin diventa pretesto per un attento excursus sul mondo dell’arte underground della seconda metà del Novecento, ma anche per una potente opera di denuncia politica.
Sono questi i binari paralleli su cui si snoda la ricostruzione di Poitras, da un lato la storia e le tappe che hanno maggiormente segnato la vita privata e la carriera di Goldin, dall’altra il presente e la lotta a suon di scudisciate d’arte eversiva da parte del collettivo P.A.I.N. Gruppo, questo, fondato dall’artista stessa al fine di squarciare il velo di menzogne che aleggia attorno alla famiglia Sackler, potenza dell’industria farmaceutica, i cui prodotti a base di ossicodone sono ritenuti responsabili di innumerevoli morti per overdose. Due linee narrative in costante dialogo tra loro, che si abbracciano e si autoalimentano per affermare quanto il fervido presente sia irrinunciabile conseguenza di un passato all’insegna della guerriglia creativa.
All The Beauty And The Bloodshed è però ancora prima che un manifesto sulla carica politica della produzione artistica, un accorato compendio della carriera di Goldin, le cui opere fotografiche si susseguono su schermo troneggiando in gran parte delle sequenze e contribuendo ad accrescere l’appagamento visivo di un film altrimenti anestetizzato da un approccio asciutto e fin troppo scarno. La regista, premio Oscar nel 2015 per il documentario Citizenfour, non vuole eccedere nella rielaborazione formale, limitando il proprio apporto all’esposizione di frammenti tratti dalla vita della fotografa nativa di Washington D.C. Sono invece i materiali d’archivio e soprattutto i già citati scatti fotografici (The Ballad of Sexual Dependency, The Other Side, Sisters, Saints and Sibyls e Memory Lost sono i cataloghi principali) a consegnare sotto forma di immagine l’indomabile necessità di ribellione, fulcro questo dell’intero documentario.
Perché alla fine è proprio lo spirito inquieto e visionario dell’artista ad emergere con prepotenza dal lavoro di Poitras. Sovrastando la sottotrama riguardante i crimini dei produttori di oppiacei, l’istantanea sul vissuto di Nan Goldin e la sua attività professionale è materia che autonomamente riesce a farsi carico delle implicazioni morali da cui il film trae sostentamento. I numerosi slideshow che scandiscono il tessuto narrativo, anziché costituire delle boriose divagazioni sul tema, ne rappresentano l’anima vibrante. Lo stile grezzo, sordido e violento che contraddistingue lo sguardo della fotografa è di per sé un’autobiografia dolorosa e un grido di rivalsa sulle costrizioni. Il suo animo indomabile, riversato ed incastonato nei numerosi ritratti, è il vero epicentro sovversivo di un saggio documentaristico in cui la bellezza e lo spargimento di sangue cui si fa riferimento nel titolo non sono due concetti scindibili.
L’esperienza di Goldin è sinonimo di una vocazione espressiva brutale e rabbiosa, che Laura Poitras riesce a restituire solo facendosi da parte e lasciando che sia la personalità oggetto della sua indagine ad occupare la scena. Scelta che indubbiamente costituisce un limite agli occhi di chi avrebbe desiderato un arricchimento proveniente dallo sguardo dell’autrice e da un suo sbilanciamento anche sul piano delle tecniche di racconto cinematografico. Al contempo, però, è giusto rendere merito ad una visione limpida ed accurata di un film che, per quanto non clamoroso, dona nuovo lustro ad una delle figure principali dell’arte visiva contemporanea, in un intenso viaggio tra i ricordi che ne esaltano l’aggressiva ricerca di bellezza pur mantenendone intatti gli aspetti più sensibili e vulnerabili.