Momento quiz. C’è un gran visir di nome Jafar, che è anche un potente stregone, intenzionato a sposare la figlia di un sultano grassottello con buffa barba bianca, la quale è innamorata di un giovane che fa di tutto per stare con lei. Aggiungete che il migliore amico di questo giovane si chiama Abù e che ad un certo punto arrivano un genio capace di esaudire tre desideri e un tappeto volante. Di che film si tratta? Cresciuti con i classici Disney o meno, la maggior parte di voi punterebbe certamente su Aladdin, film d’animazione di Ron Clements e John Musker del 1992. E invece no.

Siamo nel 1940 e stiamo parlando di un live action il cui risultato finale lo si deve a ben sei registi (anche se i più accreditati rimasero Ludwig Berger, Michael Powell e Tim Whelan) e ad un uomo con un sogno: fare un remake dell’imponente Il ladro di Bagdad del 1924 proponendo qualcosa di completamente nuovo, spettacolare, mai visto prima. Quell’uomo era Alexander Korda e nella magia dello splendido technicolor che ne decretò il successo, in questi giorni il Cinema Ritrovato ha riportato in sala il suo Il ladro di Bagdad. Ovvero: Aladdin 52 anni prima.

Perché vedendo oggi per la prima volta questa spericolata fantasia è impossibile non cogliere i numerosi punti di contatto con il lavoro di Clements e Musker, e non solo perché entrambi i film prendono spunto dai racconti de Le mille e una notte: il look dei personaggi, le scenografie, i costumi, i colori della città, le musiche… tutto sembra preso e trasportato di peso dalla realtà alla carta. In Aladdin c’è addirittura tutta una parte iniziale di fuga del protagonista per i tetti dei quartieri popolari di Agrabah, nascondendosi dentro vasi e saltando lunghe rampe di scale, che è identica alle disavventure del ladruncolo Abù per le strade malfamate di Bagdad.

Per uno spettatore contemporaneo è impossibile parlare di questo film senza pensare al cinema che influenzò in seguito. L’aspetto più affascinante de Il ladro di Bagdad è che al netto delle sfarzose scenografie e dell’uso massiccio di effetti speciali (molti dei quali al tempo di una potenza visiva inaudita), alla fine stia dalla parte del vino buono che c’è nella botte piccola. Seguendo ossequiosamente uno dei messaggi cardine delle novelle orientali da cui è tratto, il film esalta le virtù che troviamo nelle persone semplici e umili, che non sempre sono quello che sembrano, sono “diamanti allo stato grezzo”.

Concetto perseguito con dovizia da chi in seguito avrebbe dato nuova vita al genere “avventura con declinazioni di fantastico”, si pensi al George Lucas di Star Wars o al Peter Jackson de Il Signore degli Anelli. Ecco perché l’inquadratura finale è dedicata ad Abù, che avrebbe potuto benissimo non aiutare Ahmad ma lo fa lo stesso, e prima ancora di scoprire di trovarsi dinnanzi ad un principe.