“Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro.

E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guarderà dentro di te".

Così affermava Nietzsche nel suo saggio Al di là del bene e del male, ma non parrebbe strano se il medesimo aforisma comparisse sulle accattivanti locandine dell’ultimo film dei fratelli D’Innocenzo. Presentato in concorso a Venezia 78, America Latina è un breve e tagliente viaggio tra i mostri (reali e no) di un uomo qualunque.

Dopo l’esordio scoppiettante con La terra dell’abbastanza e il successo con Favolacce – premiato al Festival di Berlino per la sceneggiatura – i due registi romani tornano sul grande schermo per raccontare una nuova disturbante allucinazione. Saltando l’intramontabile “C’era una volta”, l’opera si apre con una successione di fuggevoli immagini catturate da una camera a mano che rendono difficile collocare geograficamente la diegesi, ma al contempo ne delineano i confini puramente intimi.

I D’Innocenzo mostrano così le prime pagine del diario di Massimo Sisti (Elio Germano), un dentista che all’apparenza conduce una vita ordinaria in celestiale compagnia della famiglia, in una villa in periferia di Latina e ritagliandosi qualche momento di svago tra nuvole di nicotina e birre “ar vetro” assieme all’amico Simone. Ma se questa è la vita di Massimo alla luce del giorno, un evento banale come la rottura di una lampadina diventa il pretesto ideale che i cineasti utilizzano per far penetrare l’oscurità tra le immagini dell'intero film.

Del resto, la scoperta di una nuova e scomodante realtà nello scantinato di casa – luogo prediletto del genere horror e thriller, ricordando per certi versi anche il felice utilizzo che ne fece Bong Joon-ho in Parasite – mette in crisi il personaggio interpretato da Germano, un uomo fragile (non più maschio alfa come in Favolacce), le cui certezze si sgretolano a tal punto da rendere la (sua) realtà sfuggente e incomprensibile. Ed è in quest’ultima che è rinchiuso l’elemento che dovrebbe esserne il punto di autocoscienza: l’Io.

Ecco che, America Latina, tra perdite di fiducia in sé stesso prima, e negli altri poi, allucinazioni e verità, assume toni cupi, tra contrasti di luce che ne fanno un thriller psicologico a tinte verdi e rosse. Ma la calcolata e ammaliante fotografia di Paolo Carnera non si limita a questo, bensì gioca con l’orizzontalità e verticalità delle immagini e specialmente con la dualità del “Dr. Jekyll e Mr. Hyde" di Germano, mostrandolo più volte attraverso il suo riflesso (nel pianoforte, nella scrivania, nei vetri, nella minestra). La macchina da presa, lenta e sinuosa, centellina le visioni d’insieme di spazi asettici, restando addosso a Massimo per coglierne le sfumature, ansie e paure che lo hanno reso un uomo a metà, al contempo sviscerate in maniera netta nell’incontro col solitario e scorbutico padre, specchio di ciò che non vuole essere, ma che forse purtroppo è già. I D’Innocenzo imbastiscono il racconto non lasciando nulla al caso, sono speculari persino le due scene chiave in cui il protagonista scopre la (ir)realtà.

Un film costruito su dubbi paranoici che destabilizzano sì il dentista, ma anche gli spettatori che tentano di entrare nel suo calvo cranio, cercando di scovare la verità occultata all’interno di una cantina domestica che assume la dimensione dell’interiorità. Dopotutto anche dietro al duro smalto bianco di un dente può celarsi una carie, no? L’irrequieta anima perduta divaga inerme dinanzi alla depravazione e decadimento che avvelena la quotidianità e la mente, obbligandolo a indossare una maschera pirandelliana per coprire il marciume interno, divenendo vittima e carnefice allo stesso tempo della società contemporanea.

Tra sussurri e grida e passi appesantiti di Elio Germano - che ricurvo sulle scale appare come un moderno Nosferatu –, le ruvide note dei Verdena sono la punteggiatura ideale per la nuova fiaba dei D’Innocenzo. Nonostante l’aggiunta di una voce fuori campo sul finale privi il film dell’alone di mistero presente invece nella versione veneziana, i due fratelli riescono a parlare di stabilità mentale e fragilità emotiva attraverso un racconto stratificato, scardinando i punti cardine di una società di stampo patriarcale e incanalando il discorso in un binarismo di genere (ma non solo), dove gli uomini non devono rivelare mai le proprie emozioni e le donne sono ancora ritratte come figure angeliche, avvolte di bianche vesti, che aleggiano negli spazi domestici.

Una pellicola in grado di non lasciare indifferenti gli occhi allibiti degli spettatori che vengono trascinati in un turbinio di suggestioni discordanti. Senza la pretesa di dare risposte, ma sollevando piuttosto domande. America Latina è amore (?).