Quanti film possono vantare di aver trasformato un’espressione che nemmeno esisteva nella lingua italiana in un modo di dire diventato proverbiale? Dobbiamo ad Animal House, appena ripiombato in sala grazie ad Academy Two, o meglio al doppiaggio nostrano del 1978 l’uso di “quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare” – ed è naturalmente una trascurabile coincidenza (ma di quelle che solo il cinema concede) che si stia qui a scrivere di “discesa in campo” mentre esce di scena chi l’ha di fatto inventata come frase idiomatica e concetto politico, e ci si illude che finisca così un tragicomico film nazionale durato trent’anni e più.

Ma torniamo ad Animal House, fragorosa e pantagruelica satira dell’America wasp nonché farsa distruttiva delle aspirazioni liberal del paese più imperialista del mondo, travolgente successo di pubblico a fine Settanta (l’incasso complessivo arrivò a 141 milioni di dollari a fronte di un budget di 3) e terza regia di John Landis. Nel 1962 il Faber College, amministrato da un rettore moralista colluso col sindaco mafioso, diventa teatro degli scontri tra due confraternite, la Delta Tau Chi, rifugio per perdigiorno spericolati e festaioli, e la Omega Theta Phi, club di ricchi perbenisti impotenti con tendenze neonaziste, i cui nomi, in entrambi i casi, sembrano usciti dalla penna di Nabokov.

Dopo un saliscendi deragliante di reciproci assalti e avventure picaresche che spesso e volentieri sbeffeggiano i pregiudizi erotici o razzisti tanto degli antagonisti benpensanti quanto degli epicurei capitanati da Bluto (John Belushi in versione Super-Eliogabalo) – compreso l’iconico toga party movimentato da sfasci dionisiaci e ancheggiamenti r&b – nel finale la giostra di Landis s’impenna col sabotaggio della tradizionale parata universitaria, durante la quale viene dirottato anche un carro sormontato da un testone di cartapesta del presidente Kennedy e accompagnato da sosia di Jackie in tailleur rosa Chanel.

Ambientato alla vigilia dell’attentato di Dallas, con un ritmo franto di sequenze quasi intercambiabili e i corrosivi riferimenti al Vietnam (il college serve solo a evitare il reclutamento) il film è una caricatura anarchica dell’America kennediana, della sua retorica progressista e della sua classe dirigente, formata per lo più da idioti, nichilisti e canaglie – come suggeriscono le didascalie conclusive che parodiano quelle di American Graffiti.

D’altra parte la Treccani, certificando che l’originale “when the going gets tough, the tough get going” (urlato da Bluto alla notizia della messa al bando della Delta Tau) varcò i confini statunitensi solo dopo l’uscita del film, ci informa che il motto, proveniente dal frasario del football, faceva parte del lessico familiare dei Kennedy giacché ricorrente nei discorsi del padre di JFK e Bobby. Non sarà un caso allora che proprio il personaggio di Belushi, incarnazione postmoderna del trickster, il briccone divino delle mitologie di mezzo mondo, suoni la carica per i suoi compagni di frat house con le parole care alla famiglia presidenziale, rovesciando l’edificante incitazione sportiva in un appello alla devastazione.

Insieme agli sceneggiatori della rivista umoristica National Lampoon e al produttore Ivan Reitman, futuro regista di Ghostbusters, Landis sfruttò la fisicità debordante dell’attore per farne una sorta di barbaro mimo, incoronato da una bandana piratesca o da un diadema di pampini, alla guida di una turba di presunti sbandati da opporre alle ipocrite pretese civilizzatrici dell’America bianca, industriosa e demente.

Senza dimenticare che in questa galleria della stupidità made in U.S.A. (titolo godardiano che già nel ’66 ironizzava su certi feticci pop americani) merita una menzione speciale Donald Sutherland nella particina del professore bohemienne che, dopo uno svogliato elogio del Satana miltoniano, “tenta” gli studenti con una canna, degli LP di cool jazz e un simbolo della pace appeso al muro. Da manuale.

Rivendendolo oggi, di Animal House si può dire che è a tutti gli effetti una pietra miliare, perché, oltre ad aver avuto troppe imitazioni e nessun degno erede, segna il momento più insubordinato e iconoclasta di una stagione della comicità statunitense che, frullando insieme i fratelli Marx e John Waters, poteva permettersi ancora di intendere “demenziale” come sinonimo di “politico”.