Il mondo dello spettacolo nel suo rapporto con la contemporaneità è al centro del cinema recente di Leos Carax. Solo due film realizzati nell’arco di un decennio, ma due opere che, nonostante le evidenti divergenze formali, dialogano tra loro fino a trovare terreno comune nell’analisi delle personalità artistiche in rapporto al nuovo contesto mediale. Holy Motors e Annette dichiarano la loro natura simile e differente sin dai rispettivi incipit; entrambi nobilitati dalla presenza su schermo dell’autore stesso in quanto figura in grado di inaugurare il rituale della narrazione.

Se nel film del 2012 questo inserimento metatestuale portava con sé un simbolismo ricercato (finanche stucchevole agli occhi di alcuni) che trovava coerenza nella sfrenata decostruzione del racconto che costituiva uno dei film più importanti dello scorso decennio, Carax si intromette nel tessuto della sua ultima fatica filmica in modo estremamente naturale, divertito, quasi giocoso nel dare il via alla prima, bellissima, sequenza musicale. Non più l’aurea concezione dell’autore in quanto “chiave” in grado di spalancare le porte della percezione spettatoriale, ma la sua presenza quale semplice elemento dedito alla costruzione del prodotto cinematografico.

L’esordio di Annette vuole infatti essere una sorta di presentazione su schermo delle principali maestranze coinvolte. Immancabile dunque la presenza degli Sparks Brothers, ideatori del soggetto e della portentosa colonna sonora, che con la loro So May We Start fanno eco alle parole del regista nella chiamata all’azione diegetica. A loro si aggiungono ben presto gli interpreti principali, non ancora immedesimati nei rispettivi personaggi ma pronti ad occupare i loro ruoli all’interno dell’affresco audiovisivo concepito dagli autori. Da questo splendido prologo può avere inizio il vero spettacolo, in un passaggio on screen tra realtà e finzione che si rivela propedeutico alla sospensione dell’incredulità richiesta dal film.

Ecco dunque i protagonisti Adam Driver e Marion Cotillard calati nelle rispettive controparti e la presentazione delle loro vite segnate dal successo e conseguentemente dal rapporto con il proprio pubblico. Henry è un cabarettista dall’ironia ruvida ed estremamente efficace, la cui perenne ricerca di uno scontro con gli ammiratori tradisce una malcelata indole aggressiva. Anne è invece una sublime cantante d’opera che ad ogni esibizione si immola di fronte ai suoi spettatori, i quali vivono il suo reiterato sacrificio artistico come una possibilità di redenzione dai propri mali. Tramite la “controintuitiva” unione di queste due figure esposte all’attenzione mediatica, Carax articola un parossistico melodramma musicale che esplora gli anfratti più cupi di una vita vissuta alla luce dei riflettori.

La difficoltà nel saper scindere l’intimità dalla sfera pubblica trova la sua risonanza in una messa in scena in cui verosimiglianza e surrealismo si alimentano vicendevolmente, separati da un labile e sfumato confine. In questo linguaggio impregnato di ambiguità avviene invece la netta polarizzazione dei due protagonisti, i cui ruoli di vittima e carnefice vengono dapprima lasciati trapelare a livello simbolico e in seguito cristallizzati dall’inequivocabile successione degli eventi. La nascita della piccola Annette coincide sia con l’apice dell’ibridazione linguistica cui si è fatto riferimento, che con la definitiva rottura degli equilibri che hanno regolato il rapporto tra Henry e Anne. In questa fase la linea melodrammatica che regge la straripante miriade di suggestioni viene accentuata, incupita fino a macchiarsi talvolta delle tinte macabre dei generi dell’orrore.

Tuttavia, il coinvolgimento di un pubblico esterno, scandito dagli onnipresenti mezzi per la comunicazione digitale, garantisce il mantenimento di una componente kitsch che impedisce al dramma di abbracciare pienamente il tono della tragedia. È proprio la sensazione di una perenne ed invadente presenza spettatoriale a modificare la volontà dei personaggi in scena, i quali agiscono costantemente in funzione della relativa immagine esposta all’attenzione del pubblico.

E il fatto che a rompere questa riproduzione contraffatta sia proprio il personaggio simbolo della falsificazione identitaria è il paradosso finale che conferma l’infinita stratificazione di significati su cui Annette porta a riflettere. Ma oltre alla complessità di spunti semantici, che mai potrebbero essere adeguatamente scandagliati in una semplice recensione, l’ultimo film di Leos Carax si impone anche e soprattutto come una grandiosa esperienza di visione.

Al suo esordio americano, il regista francese si concede ad uno dei generi fondamentali della cinematografia d’oltreoceano e, come era lecito aspettarsi, ne rispetta i canoni ma al contempo lo adatta a suo piacimento. Annette è un musical in cui le canzoni inglobano la trama dialogica, relegando il discorso parlato a sporadici episodi disseminati con estrema parsimonia. Sono perciò le musiche degli Sparks a farsi fondante elemento di scrittura e veicolo per il racconto. Consapevole che la pregnanza tematica necessita di una controparte formale di pari valore per esprimersi adeguatamente, Carax concede alla ricercatezza estetica un elemento di primaria importanza.

Ciò che ne risulta è una soverchiante concentrazione di stimoli sensoriali ed emotivi, in grado di spiazzare, scuotere ed esaltare la percezione dello spettatore, il quale, disorientato di fronte a tale maestosità, si trova costretto a rinfoderare i consueti strumenti interpretativi per lasciarsi sopraffare da un’incontrollabile marea di immagini e suoni. Questo è l’aspetto che più di ogni altro fa di Annette una sublime sinfonia drammatica, certamente esigente in relazione al suo pubblico, ma caratterizzata da una sincera generosità nel distillare emozioni purissime, intense e degne di essere esperite secondo l’invito dell’autore: in silenzio, a fiato sospeso e occhi spalancati.