Ogni forma d'arte ha i suoi limiti espressivi, e i suoi punti di forza incontrovertibili. Difficile rendere nella bidimensionalità di uno schermo cinematografico l'esperienza di trovarsi personalmente al cospetto di un quadro monumentale; allo stesso tempo, è proprio su quello schermo che una scultura può perdere la sua impossibilità di comunicare a parole, e una figura femminile mitica sussurrarci le proprie suggestioni.

In fondo Anselm di Wim Wenders, dedicato al grande artista contemporaneo Anselm Kiefer, è un vitale slancio titanico-romantico verso il superamento del limite. Girato in 3D con risoluzione 6K, è pensato per immergere completamente lo spettatore nel mondo di Kiefer, nella possanza soverchiante delle sue enormi creazioni, nella matericità inquietante e stratificata di elementi eclettici, dal piombo al grano bruciato.

E poi, cosa se non il 3D per trasportarci virtualmente nei luoghi concepiti da Kiefer come opere d'arte estese, dove gesto creativo e risultato finale si confondono e si compenetrano, dove prodotto e processo risultano indistinguibili (ma se si racchiude il caos in un rettangolo, lui dice, questo diventa “un quadro” – immediata l'analogia con il cinema, peraltro).

Wenders e Kiefer sono amici da decenni, e hanno cullato il progetto di questo documentario per trent'anni, prima di realizzarlo. Entrambi tedeschi, entrambi classe 1945, hanno approcciato in modo profondamente diverso l'immediato passato della loro nazione: un entusiasta cittadino del mondo Wim, un viscerale esegeta della storia germanica Anselm, impegnato a ridare linfa ai miti e alle leggende della tradizione, ma soprattutto a ricordare ai suoi compatrioti l'immenso rimosso del nazismo.

Nato pochi mesi prima della fine della guerra, Kiefer è stato esentato dal vivere quegli anni, ma non ha mai fatto a meno di interrogarsi su come si sarebbe comportato se ci fosse stato. Ha sempre giocato col fuoco (in tutti i sensi), dalle vituperate fotografie di fine anni '60 in cui faceva il saluto hitleriano con addosso l'uniforme del padre, ai suoi celebri paesaggi espressionisti, in cui nulla può essere stato risparmiato dalla disumanità del passato.

Un corpus espressivo proteiforme e sterminato, al quale Wenders si avvicina da documentarista esperto, dopo il racconto per immagini di Pina Bausch (Pina), Sebastião Salgado (Il sale della terra), Papa Francesco (Papa Francesco – Un uomo di parola), Claudine Drai (Présence). Scarta le soluzioni convenzionali, l'indottrinamento insito nel far narrare l'artista da se stesso oppure da esperti e conoscenti. Come l'arte di Kiefer, anche Anselm esiste per turbare, non per insegnare.

Chiamandolo sin dal titolo col nome proprio, il film ci avvicina all'artista con una pretesa di confidenza. Wenders lo mostra semplicemente al lavoro, nel suo gigantesco studio attuale alle porte di Parigi, oppure – a ripercorrerne le ere – ritornando nei luoghi in cui ha lasciato le sue impronte: i diversi atelier in cui ha vissuto fra le montagne tedesche dell'Odenwald, e poi Barjac, nel sud della Francia, dove si è trasferito a inizio anni '90 per dare vita alla magniloquente La Ribaute, sua personale Xanadu.

Kiefer, alle soglie degli 80 anni, è una presenza magnetica: ieratico e completamente umano al tempo stesso, grandioso e minuscolo al cospetto delle sue creazioni. L'artista è presente, e tanto basta. Wenders fa un uso millesimato di vari stilemi del documentario: giusto qualche sporadico filmato di repertorio (per dare voce a due ispirazioni fondamentali come Paul Celan e Ingeborg Bachmann, e per far replicare direttamente un Kiefer d'antan alle vecchie accuse di neo-nazismo) e qualche breve reenactment, mai per riassumere ma solo per suggestionare (con il figlio dell'artista, Daniel, a interpretarlo nei anni giovanili, e il nipote del regista, Anton, in quelli dell'infanzia).

Stesse modalità per la forma intervista: abbiamo davanti agli occhi lui e il suo lavoro estensivamente per tutto il tempo, ma Anselm Kiefer parla davanti alla cinepresa solo per pochi momenti. Non spiega, non illustra. Si interroga, sul senso dell'esistenza umana e del tutto. Noi siamo lì, ormai pendiamo dalle sue labbra.