Forse è vero che il nome nasconde un presagio di chi saremo. Nomen omen, come si diceva in latino. Richard Linklater ha un cognome che sembra raccontare in breve la tematica più cara al suo cinema. Link, ovvero collegamento, connessione e Later, ovvero ritardo, dopo. Apollo 10 e mezzo è soltanto l’ultimo film del regista, in ordine cronologico, che si diverte a giocare con il tempo. Non come fa Christopher Nolan nei sui contorti labirinti, ma abitando questa dimensione in una maniera del tutto personale, unica.
I film di Linklater creano dei ponti, delle connessioni, tra passato e futuro, tra ciò che è stato e ciò che sarà. Pensateci, il protagonista di questo film racconta, da adulto, la sua infanzia. Sta quindi portando alla memoria il suo passato ma al tempo stesso ricorda le sue fantasie, i suoi sogni di allora. Il tempo veniva abitato anche in Boyhood, progetto realizzato su un arco di oltre dieci anni in cui la crescita veniva letteralmente impressa su pellicola. Ma Linklater è anche il regista della “trilogia del Before” e soprattutto di due film di animazione in cui, anche se la dimensione cronologica non era protagonista al cento per cento, la storia verteva sul concetto di labili e impalpabili confini (il sonno e la veglia in Waking Life, l’identità e l’inganno in A Scanner Darkly).
Apollo 10 e mezzo (Netflix) è il terzo film di animazione del regista di Houston, che opta di girare il tutto nuovamente con la tecnica della rotoscopia. Una scelta indovinata per restituire al pubblico la sensazione di uno straniamento. Non riusciamo a capire cosa sia vero e cosa romanzato, cosa autobiografico e cosa appositamente inventato. Non riusciamo a distinguere i ricordi dalla fantasia, la cronaca dall’immaginazione. L’animazione di Linklater scombina le carte in tavola, rende tutto opinabile: troppo astratto per essere vero, ma anche troppo verosimile per essere falso. Proprio qui risiede la grandezza del film, uno dei più caldi, sinceri ed emozionanti tra quelli firmati dall’autore. Apollo 10 e mezzo è un insolito, banale, cammino di formazione in cui l’unica cosa che conta, l’unica cosa autentica, sono le emozioni.
Così, attraverso un costante e irresistibile flusso di coscienza mascherato da album dei ricordi, Linklater si dimostra uno dei narratori per immagini più intelligenti e consapevoli in circolazione, tanto abile nel dare forma a molteplici dimensioni quanto esperto nel riuscire a navigarle senza mai perdere di vista l’obiettivo ultimo del suo lungo peregrinare. Apollo 10 e mezzo è quindi un tuffo nel passato del regista, sia biografico che cinematografico. Sono tante, infatti, le rime interne alla sua filmografia che Linklater inserisce nel film (la più evidente è la voce narrante di Jack Black che qui “torna a scuola” dopo School of Rock), in grado di intrecciarsi in maniera fluida e naturale con i ricordi d’infanzia.
Eppure, come le migliori sineddoche, accompagnando lo spettatore all’interno della sua memoria, Linklater porta in scena la sfrenata voglia di una generazione di diventare adulta, di poter toccare con la punta del naso la parte alta di un mattoncino sul muro, ma che invece dovrà fare i conti con la disillusione di una nazione intera, che quel naso lo terrà incollato alla televisione per seguire l’allunaggio del 1969 invece che puntarlo direttamente verso la luna.