Il rischio maggiore per un film è cadere nei più banali cliché del genere di appartenenza, stilemi ormai eccessivamente abusati che danno al prodotto finale una sensazione di già detto e già visto. È il caso comune a molte opere sulla Shoah proposte di anno in anno in occasione della Giornata della Memoria, che si propongono di sensibilizzare il pubblico attraverso il mezzo audiovisivo, ma proprio a causa delle stilizzazioni di personaggi, situazioni e meccanismi narrativi atte a rendere il testo immediatamente codificabile, sfociano in una stanca retorica visiva e sentimentale. Quello che servirebbe davvero sarebbero opere più innovative, in grado di superare le forme e le formule più stantie per aggiungere qualcosa di veramente originale a un contesto e un discorso ormai ampiamente trattato. È questo il caso di Lettere dall’Archivio di Davide Rizzo.
Nato da un progetto di ricerca promosso dall’Ordine degli Architetti ed Ingegneri di Bologna, dalla Comunità Ebraica locale e condiviso col Tavolo Istituzionale per la Memoria del Comune del capoluogo, il film affronta le conseguenze delle Leggi razziali del 1938 sugli architetti e ingegneri iscritti ai rispettivi Ordini cittadini. Partendo dai materiali custoditi negli archivi bolognesi, il film ripercorre le vicende personali e lavorative di quei talentuosi professionisti privati improvvisamente del loro titolo lavorativo e di ogni diritto a esso connesso. Come Enrico De Angeli, Giulio Supino e Guido Muggia, i soli di cui è stata ritrovata documentazione e dei quali – attraverso le testimonianze di studiosi, colleghi e famigliari – si ripercorrono le vite e le carriere prima, durante e dopo il Ventennio in ritratti abbozzati, ma carichi dei rispettivi caratteri e personalità. Piccole storie quasi dimenticate che si inseriscono nella più ampia parabola fascista novecentesca, facendo di un caso specifico (quello bolognese) l’esempio di un più ampio discorso nazionale.
Lettere dall’Archivio va difatti ben oltre i confini localistici, ponendosi come interessante riflessione non solo sul valore della coscienza storica – di cui gli archivi si dimostrano ancora memoria condivisa, imprescindibili strumenti da cui partire per qualsiasi ricerca – ma anche e soprattutto sul forte legame tra un professionista e l’ambiente in cui ha operato. Una connessione che si riflette nelle proprie opere, che a loro volta contribuiscono all’evoluzione stessa della città, in senso figurato nel caso di artisti, ben più fisico e pratico ad esempio per architetti e ingegneri. Muoversi tra strade e palazzi, conoscendone autori, cambiamenti e ragioni dietro a determinate scelte stilistiche, consente una più consapevole relazione con lo spazio e con il tempo, passato e presente, verso una matura prospettiva futura.
Nel documentario la questione ebraica è allora il punto di partenza e non di arrivo del progetto che come una biblioteca, o meglio un archivio, si apre continuamente a più ampie e ramificate ricerche. Come il rapporto con cinema e musica nell’architettura di De Angeli sintetizzati da Giuliano Gresleri e Tito Gotti, spunti eccezionali che meriterebbero ben più ampie riflessioni.