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“Inizio di primavera” e la mancanza dell’infanzia

Quando uscì Inizio di primavera (1956) Ozu era inattivo da tre anni. Possono non sembrare molti, non era nemmeno la prima volta che lasciava passare del tempo, ma era successo durante gli anni della guerra e parliamo di un cineasta benvoluto dall’industria e dal suo pubblico, abituato a girare a tempo di record da uno fino anche a cinque film l’anno. Si tratti di un caso o dell’aver allentato la catena a un talento ormai maturo e tenuto in stallo, il film è il più lungo fra i suoi trentasette superstiti. 144 minuti di urgenza e densità tali da rischiare di confondere le acque, come un oggetto che sfoca per l’eccessiva vicinanza all’occhio.

“Inizio di primavera” di Ozu al Cinema Ritrovato 2018

Quello di Ozu è uno stile preciso e calcolato, che quasi abolisce i movimenti di macchina per concentrarsi sulla composizione plastica dell’inquadratura, spesso ricca di dettagli e profondità. Il ritmo del film è dato dal gioco di linee e volumi, dal taglio dinamico interno ad ogni singolo fotogramma. Il lato emotivo dell’opera è invece affidato ai primi piani, in cui spesso, durante certi dialoghi, i personaggi guardano quasi in camera, come a voler scappare dallo schermo e interpellare direttamente lo spettatore. Inizio di primavera è quasi un manuale di cinema, una lezione come la qualità di un regista non risieda nei mezzi che ha a disposizione, ma nella sapienza con cui vengono usati.