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Il cinema spurio di “Vice”

McKay compone un collage eterogeneo, sfrutta un montaggio spiazzante e jazzistico che lavora su analogie e parodie, accosta i pixel alla grana della pellicola, procede per anacoluti narrativi e false partenze (la voice over svelata a singhiozzo, i titoli di coda a metà film, le didascalie celebrative in funzione anti-spettacolare). Guarda, tra i tanti, a Michael Moore, Errol Morris e House of Cards: del primo conserva la foga anti-establishment, del secondo la lucidità della riflessione su immagine e politica, del terzo i monologhi in macchina e il gusto per un intreccio sotterraneo complesso e appetitoso. Piega a suo favore il trasformismo fisico e vocale di Christian Bale, Steve Carell e Amy Adams, e condisce il tutto di un’umorismo demenziale eppure sofisticatissimo, basato sullo scollamento tra registri linguistici e visivi. Il risultato è un cinema spurio, ibrido, che procede con andatura sincopata in un patchwork