Parafrasando la pagina Wikipedia a lui dedicata, Dick Cheney è citato come “il più potente vicepresidente della storia americana” e, al contempo, “uno dei politici meno apprezzati dall'opinione pubblica, con un indice di gradimento del 13% alla fine del suo mandato nel 2009”. La sua parabola politica si svolge sotto il segno di un paradosso insanabile tra potere e visibilità, esecutivo e retorica. Nel precedente lavoro di Adam McKay, La grande scommessa, le premesse narrative si basavano su uno iato altrettanto evidente, ma di segno opposto, tra forma e sostanza, sull'illusione del benessere ai tempi della speculazione selvaggia.

Se per raccontare la bolla finanziaria si indagava, prima ancora che i suoi ministri, un sistema di potere, qui la destra imperialista dell'era Bush viene metonimicamente sintetizzata in una traiettoria biografica, che affonda le sue premesse persino negli psicologismi (il successo di Cheney come risultato, per procura, dell'ambizione della moglie, a confermare l'adagio for dummies per cui “dietro ogni grand'uomo c'è l'opera di una grande donna”). La natura di questo potere, tuttavia, resta un fantasma troppo ambiguo e sfuggente per essere osservato ad occhio nudo: l'unico modo per descriverne la natura poliedrica è adottare uno sguardo altrettanto obliquo, frammentato e vorticoso. McKay compone allora un collage eterogeneo, sfrutta un montaggio spiazzante e jazzistico che lavora su analogie e parodie, accosta i pixel alla grana della pellicola, procede per anacoluti narrativi e false partenze (la voice over svelata a singhiozzo, i titoli di coda a metà film, le didascalie celebrative in funzione anti-spettacolare).

Guarda, tra i tanti, a Michael Moore, Errol Morris e House of Cards: del primo conserva la foga anti-establishment, del secondo la lucidità della riflessione su immagine e politica, del terzo i monologhi in macchina e il gusto per un intreccio sotterraneo complesso e appetitoso. Piega a suo favore il trasformismo fisico e vocale di Christian Bale, Steve Carell e Amy Adams, e condisce il tutto di un'umorismo demenziale eppure sofisticatissimo, basato sullo scollamento tra registri linguistici e visivi.

Il risultato è un cinema spurio, ibrido, che procede con andatura sincopata in un patchwork di figure visibilmente redacted (impossibile non ripensare a temi e stilemi dell'operazione depalmiana), mentre il nocciolo della questione viene costantemente rimandato a immagini traballanti, mai definitive, immerse in un flusso che scorre intorno e all'interno dei punti ciechi della società statunitense.