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“Quello che non so di lei” respinge ma ammalia

Echi di Personal Shopper – Olivier Assayas è cosceneggiatore del film – risuonano nei brevi intermezzi fantasmagorici in cui entità immateriali ricompaiono dal passato, attraverso le plumbee tonalità della fotografia di Pawel Edelman, già collaboratore di Polasnki ne Il pianista, o anche nei volti spigolosi e ipnotici delle protagoniste. L’alchimia fra Seigner e Green è potente, costante, sottesa di una latente e piacevole carica erotica inespressa che interviene in soccorso di una sceneggiatura gracile e costernata di (s)velati debiti interni. La ristretta costellazione di personaggi intorno a cui ruota e si snoda la storia, ci riporta idealmente al punto di inizio del percorso artistico del regista franco-polacco, Il coltello nell’acqua.

Immaginazione e parola in “Quello che non so di lei”

A ricorrere, in Quello che non so di lei, in maniera ossessivo compulsiva è la parola immaginazione e tutti i suoi derivati, sia pure metonimicamente: immagine, immaginario, immaginifico sono le accezioni di una realtà di per sé sfuggente, svincolata da qualsiasi condizionamento con la verosimiglianza. Roman Polanski dà così vita ai paradossi e alle perversioni della mente di Delphine\Emmanuelle Seigner, una scrittrice e, non a caso, il principio costitutivo del film è l’essenza stessa della fiction, l’ambiguità intrinseca al processo creativo e la sua natura di “altro” rispetto all’apparente logica delle cose mondane: Quello che non so di lei, tuttavia, va oltre.