Delphine (Emmanuelle Seigner) è l’autrice di un romanzo intimo e delicato in cui racconta il suicidio della madre. Il successo del libro, divenuto un bestseller, ha gettato però parecchie ombre sulla vita della donna che, attraverso minacciose lettere anonime, viene accusata di aver speculato su una tragedia famigliare. Delphine è inoltre stremata dai tour promozionali e vorrebbe solo prendersi un periodo di pausa per avanzare le ricerche del suo nuovo progetto letterario e raccogliere le idee. Ma proprio durante un firmacopie conosce Lei (Eva Green), “sta per Leila” - Elle nella versione originale ed Hermione/Her in quella inglese - spiega la giovane e seducente ammiratrice che si guadagna da vivere come ghostwriter. Fra le due donne scaturisce sin da subito una forte sintonia, ma quando Lei si trasferisce nell’appartamento di Delphine, nonostante le forti riluttanze di François (Vincent Perez), compagno di quest’ultima, il loro rapporto inizia a prendere una strana piega. Lei, vuole riempire il vuoto lasciato dai figli, ormai adulti, nella vita di Delphine, o prenderne il possesso?
Quello che non so di lei è tratto dal romanzo Da una storia vera - D’après une historie vraie è infatti il titolo originale del film - di Delphine de Vigan. “Che tu lo voglia o no sei responsabile dell’amore che hai suscitato” è il monito lanciato da Lei a Delphine. Da questa premessa prende le mosse la narrazione che verte non tanto sulle reali intenzioni della donna, fin da subito manifeste, ma sulla sua effettiva “essenza”. Del resto l’incapacità di decifrare l’entità e la forma del male che ci scorre accanto, o addirittura dentro, fin quando non ci travolge è l’istanza stessa del cinema polanskiano (e oltre). Il terrore dell’invisibile, la tensione surreale, le connotazioni spirituali sono elementi che hanno caratterizzato in generale il cinema polacco degli anni Settanta, da Wojciech Has e Andrzej Waidja fino a Walerian Borowczyk. Il tema letterario e le derive persecutorie della fan-stalker innescano un immediato quanto flebile déjà vu con Misery non deve morire, ma non è necessario andare toppo avanti nel film per rendersi conto che ci troviamo in tutt’altro territorio stilistico rispetto all’adattamento di Rob Reiner.
Echi di Personal Shopper - Olivier Assayas è cosceneggiatore del film - risuonano nei brevi intermezzi fantasmagorici in cui entità immateriali ricompaiono dal passato, attraverso le plumbee tonalità della fotografia di Pawel Edelman, già collaboratore di Polasnki ne Il pianista, o anche nei volti spigolosi e ipnotici delle protagoniste. L’alchimia fra Seigner e Green è potente, costante, sottesa di una latente e piacevole carica erotica inespressa che interviene in soccorso di una sceneggiatura gracile e costernata di (s)velati debiti interni. La ristretta costellazione di personaggi intorno a cui ruota e si snoda la storia, ci riporta idealmente al punto di inizio del percorso artistico del regista franco-polacco, Il coltello nell’acqua. Ma esattamente è solo un punto d’inizio perché in Quello che non so di lei riemergono, con grande appetito cinefilo, attraverso un’ideale parabola tutti gli stilemi del cinema di Polanski. Spazi claustrofobici all’interno dei quali i personaggi maturano fobie e paranoie di ogni tipo e genere. La casa non più come luogo per correre al riparo dalle insidie del mondo esterno ma origine di ogni male. Così l’elegante appartamento newyorkese di Rosemary’s Baby, in cui la Signora Woodhouse (Mia Farrow) si trasferisce con il marito Guy (John Cassavetes) per dar vita al nuovo nucleo famigliare, diviene ben presto una prigione dorata all’interno della quale la giovane donna è solo l’inconsapevole pedina al centro di nefasti progetti satanici; l’abitazione londinese che la bellissima Carol Sedoux (Catherine Deneuve) condivide con la sorella e l’amante della stessa in Repulsion fa da sfondo alla violenta ossessione sessuofobica della giovane; ma anche dietro i pesanti portoni dei palazzi parigini si celano inquietanti segreti, nel modesto appartamento de L’inquilino del terzo piano l’insospettabile impiegato Trelkowski (Roman Polanski) nutre il suo disturbo dissociativo, mentre in quello signorile di Delphine, dallo stile ricercato ma decontractè come la sua proprietaria, arrivano a tormentarla gli spettri del passato.
Quello che non so di lei è un film respingente e al contempo ammaliante che non regge ma inspiegabilmente, almeno in apparenza, convince. Un impianto diegetico così prevedibile da far comprendere fin dai primi minuti di visione allo spettatore mediamente allenato, quali esiti avrà il rapporto morboso fra le due donne senza per questo annullare il piacere della visione. Delphine è una scrittrice affermata, all’apice della sua carriera e proprio per questo sul suo estro creativo gravita tutto il peso delle aspettative che la fama porta con sé. È nell’aspetto meta cinematografico, nella riflessione sul processo introspettivo che conduce alla produzione artistica e a quel bisogno di alienazione che talvolta porta l’artista al distacco dalla realtà, che troviamo il vero punto focale del film. Accantonato l’impianto teatrale delle ultime produzioni, Carnage e Venere in pelliccia - con l’adattamento di una pièce teatrale si era già cimentato ne La morte e la fanciulla - Polanski decide di percorrere ad occhi chiusi un sentiero cinematografico che conosce a memoria - quello del thriller psicologico - dando sfoggio con superba nonchalance di una qualità non soggetta all’usura del tempo, l’eleganza.