A ricorrere, in Quello che non so di lei, in maniera ossessivo compulsiva è la parola immaginazione e tutti i suoi derivati, sia pure metonimicamente: immagine, immaginario, immaginifico sono le accezioni di una realtà di per sé sfuggente, svincolata da qualsiasi condizionamento con la verosimiglianza. Roman Polanski dà così vita ai paradossi e alle perversioni della mente di Delphine\Emmanuelle Seigner, una scrittrice e, non a caso, il principio costitutivo del film è l'essenza stessa della fiction, l'ambiguità intrinseca al processo creativo e la sua natura di "altro" rispetto all'apparente logica delle cose mondane: Quello che non so di lei, tuttavia, va oltre.
Sull'orlo del collasso, una sfiancata e flebile Seigner, abbandonata l'aura di erotismo estremo e destabilizzante che l'ha sempre contraddistinta da Luna di fiele, s'imbatte nella giovane Elle\Eva Green, personaggio (volutamente) opachissimo che sconvolgerà l'ordine delle cose di Delphine. Figura enigmatica già dal nome, dal pronome personale francese elle significa "lei", marcandone già l'indistinzione e la fantomaticità, o meglio, irrealtà; e qui non possono che insinuarsi le ossessioni della filmografia di Oliver Assayas che ha infatti collaborato alla sceneggiatura. Assayas emerge fin dall'inizio, nell'analisi sottile che fa dell'angosciosa figura femminile e del successo pagato a caro prezzo con la solitudine – dai tempi di Sils Maria – e nelle sequenze oniriche, costellando la regia di Polanski di poche ma incisive superfici riflettenti, come durante le apparizioni improvvise di Elle, attraverso uno specchio o il vetro di una finestra.
E la domanda che, a questo punto, lo spettatore si pone è: realtà o riflesso di realtà? Che Elle, creatura inqualificabile e nebulosa già a partire dal nome, sia "l'amica geniale" di Delphine? Una proiezione, un fantasma della realtà? Sono domande che mettono a dura prova il livello di credibilità dell'opera ma, trattandosi di finzione, è bene che siano stimolate e, se necessario, pecchino anche di oscurità o irresolutezza fino al climax conclusivo, costruito con lo stesso meccanismo di tensione ascendente di quell'Uomo nell'ombra dissoltosi nelle mille e mille pagine del suo manoscritto. Quello che non so di lei va oltre perché sceglie di affidarsi alle labirintiche incursioni nell'universo del possibile compiute da tanta narrativa novecentesca, Borges, Calvino, per citarne solo due esempi: in tal senso, tornando ancora sulla chiusa, l'operazione di Polanski potrebbe essere, tra il ventaglio di interpretazioni suscitate, una mitopoiesi e matrioska di invenzioni, facendoci supporre che la storia del film non è poi così reale ma frutto della creazione e fantasia di Deplhine.
Nonostante ciò, c'è da dire che la mano del cineasta polacco risulti molto meno preponderante rispetto agli ultimi lavori Carnage e Venere in pelliccia, dove le due tragicommedie da camera si fondono in seno a un'ironia tagliente e a un'intelligente rovesciamento del suddetto genere: Venere in pelliccia, perfettamente consapevole del confronto, letto nella visione parodistica dell'oltretomba interiore evocato da Bergman in Dopo la prova, dove la dialettica regista-attore è la medesima, diverse le modalità di rappresentazione. Da un lato, l'esplosione dell'eros nella voluttà carnale e sibillina di lei, dall'altro Bergman e i suoi Henrik Vogler e Anna Egerman, le fughe dal loro stesso dramma e il commovente epitaffio di una vita per il teatro e il cinema.