Tra i film proposti nella sezione Una domenica a Bologna, dedicata a storie che si svolgono nel settimo giorno della settimana, Domenica d’agosto (Luciano Emmer, 1950) è forse il più conosciuto, almeno presso gli spettatori italiani. Sull’esordio del regista, un tempo tra i meno considerati ed ormai oggetto di costante attenzione critica – se non altro per l’immensa mole di lavoro fuori dal “cinema ufficiale” (caroselli, documentari, cortometraggi, sceneggiati) – molto si è scritto, all’epoca soprattutto in termini dispregiativi: che scandalo tutte quelle cosce nude, che squallore i flirt degli adulti!

Transizione tra la stagione neorealistica (la struttura ad episodi, la povera gente, i volti desichiani Franco Interlenghi e Emilio Cigoli, la penna di Cesare Zavattini) e la sua versione cosiddetta “rosa” (i bozzetti, gli amorazzi dei proletari, la verve romanesca, la centralità del cibo), prototipo e laboratorio della commedia di costume all’italiana, pensato, voluto, prodotto dal caposcuola Sergio Amidei, è uno dei film più importanti per riflettere su come e quanto il cinema italiano di quel periodo abbia saputo raccontare il passaggio dal dopoguerra al consumismo. Caso non isolato ma certamente esempio primigenio che ha scaturito, non importa se con coscienza o no, un filone di film interessati al tempo libero delle masse popolari.

L’opera prima di Emmer, calibrando l’approccio documentaristico con l’istinto del narratore empatico coi poveri e guardingo coi ricchi, racconta il giorno di festa di una varia umanità che, approfittando della pausa dal lavoro (a parte il ladro occasionale Mario Vitale e il pizzardone Marcello Mastroianni, doppiato da Alberto Sordi), si riposa nella speranza che la spiaggia affollata possa offrire la possibilità di improvvisi amori, mentre Ave Ninchi dispensa quintali di pomodori ripieni e qualcuno, nella città vuota, allude ad un passato difficile da dimenticare. Ciò che emerge con forza, infatti, è proprio l’antitesi tra il ricordo indelebile della guerra e il presente spensierato, in cui la domenica diventa metafora della vita che ricomincia, col tempo libero da occupare nella prospettiva di un avvenire più appagante.

Pensiamo alle spiagge di qualche anno dopo: Il sorpasso o La voglia matta raccontano un’Italia che, pur attraversata dall’inquietudine che nulla vi sia sotto l’ebbrezza, è di certo più pigramente abituata alle gioie del consumismo. Inoltre, a ben vedere, come anche altre storie di villeggiatura borghese (La spiaggia, Guendalina, L’ombrellone), rivelano un’estate che diventa una domenica perenne, un infinito trimestre di indolenza e mondanità che molti dei protagonisti di Domenica d’agosto possono solo sognare.

Nel crinale tra ricostruzione e boom, per questi personaggi l’evasione dalla routine del rovente agosto capitolino è limitata al giorno di festa, come accade in altri film contigui: la modesta Famiglia Passaguai (Aldo Fabrizi, ’51) può godere dell’unica giornata di mare grazie ad uno sconto aziendale, mentre una partita di calcio è il pretesto per l’agognato viaggio in Parigi è sempre Parigi (Emmer, ’51). Proprio il calcio s’impone come cardine del tempo libero: se ne Gli eroi della domenica (Mario Camerini, ’52) diventa gloriosa occasione di riscatto, è La domenica della buona gente (Anton Giulio Majano, ’53) a prenderlo come sfondo significante di una coralità affine a quella di Domenica d’agosto. Elementi tutt’altro che trascurabili che suggeriscono di rileggere l’esordio di Emmer in un’interessante prospettiva di costume.