In concorso, ma ingiustamente sottovalutato, al festival di Cannes, Asteroid City di Wes Anderson è forse una delle opere più mature del regista texano, capace di declinare la sua estetica vivace in un ritratto dell’assurdo che governa la nostra realtà.

La prima inquadratura del film è quella di un vecchio televisore a tubo catodico in cui un presentatore, interpretato da Bryan Cranston, introduce un nuovo spettacolo teatrale in bianco e nero e in un claustrofobico 4:3. Improvvisamente  lo spettacolo prende vita: lo schermo si apre e si illumina di vividi colori pastello. Come in un campo e controcampo inizia un dialogo tra la scena e il dietro le quinte, tra i colori del sogno e la loro assenza della realtà, tra i personaggi e gli attori che li interpretano.

Così veniamo catapultati in una piccola cittadina situata in un’area desertica degli Stati Uniti sud-occidentali, probabilmente in New Mexico. Si tratta di Asteroid City, un centro abitato sorto attorno ad un cratere, conseguenza dell’impatto di un meteorite, e trasformato in un centro astronomico. In questo deserto, che è un palco metaforico in cui si svolge lo spettacolo, si tiene una fiera delle invenzioni nata con lo scopo di premiare i giovani autori di alcuni fantasiosi marchingegni. L’evento permetterà l’incontro di una costellazione di curiosi personaggi che comporranno una surreale comédie humaine.

Wes Anderson continua la sua riflessione sulla realtà e sul cinema, portandoci indietro nel tempo agli anni ‘50 unendo un’estetica cartoonesca, simile a quella di Beep Beep e Willy il Coyote, e un immaginario da western. Allo stesso tempo sembra dialogare con film che l’hanno segnato, come Amarcord di Fellini, ma anche, soprattutto, The Last Picture Show di Bogdanovich di cui ritornano molti temi. Tutti questi elementi sono assemblati con un’ironia fresca e colori sgargianti tanto da far sembrare l’intera opera un cartone animato dove, ogni tanto, è utilizzata anche l’animazione in stop-motion tanto cara al regista.

Wes Anderson non ha nessuna pretesa di realismo, ma lascia che allo spettatore si disveli il trucco dietro la magia, forse con lo scopo di portare avanti una vera e propria riflessione estetica sulla genesi di un’opera d’arte. Il processo creativo si manifesta dal momento della scrittura dello spettacolo da parte di uno sceneggiatore (Edward Norton), passando per gli strani comportamenti di un regista (Adrien Brody) fino al rapporto degli stessi attori con il proprio personaggio.

Per quanto la finzione la faccia da padrona, però, la realtà rivendica il suo spazio e fa capolino di continuo. Una realtà esistenziale, ma anche politica, che parla dell’oggi sprigionando un sentimento di ironica disillusione molto contemporaneo. In tal senso Wes Anderson ci parla di un malessere sociale diffuso, tradotto in un’opera ironica e, paradossalmente, riappacificante. Non è un caso che in un’importante scena in cui gli attori si trovano tutti insieme di fronte al regista guardando in camera ripetano in coro, come catatonici, “You can’t wake up if you don’t fall asleep” (Non puoi svegliarti se non ti addormenti). Cioè se non sogni non puoi comprendere la realtà, o meglio l’unico  modo per raccontare la verità è attraverso la sua trasfigurazione nell’assurdo, in quel grottesco che evidenzia come l’essere umano sia fondamentalmente incomprensibile.

Tutta la poetica di Wes Anderson sembra racchiusa nella scena in cui l’attore che interpreta Augie (Jason Schwartzman) chiede conto al regista della ragione di un gesto insensato del suo personaggio, cioè bruciarsi volontariamente la mano su un fornello elettrico. Qui il personaggio è posto di fronte all’abisso che regola la psiche umana, un vuoto imperscrutabile che non accetta nessuna spiegazione logica.

L’uomo non è un animale razionale come voleva Aristotele, ma un essere mosso da forze inconsce incontrollabili. In questa scena non solo vediamo la chiave di lettura del film, ma anche come Wes Anderson intenda l’animo umano e, allo stesso tempo, come intenda l’arte in generale. Si tratta anche di una rivendicazione estetica secondo la quale non serve che le azioni dei personaggi vengano sempre spiegate.

Asteroid City racconta di un essere umano che soffre, incapace di comunicare col prossimo, ma anche di capire se stesso. Dal punto di vista stilistico, a suggerirci questa interpretazione, c’è il continuo utilizzo del campo e controcampo, che separa i personaggi rimarcandone la distanza, o i frequenti primi piani che li incasellano, anche all’interno di elementi scenografici.

Nonostante la tragicità di fondo l’effetto prodotto dal film nello spettatore è decisamente di senso opposto. L’ironia e la dolcezza che ammantano l’intera pellicola trasmettono un sentimento catartico e consolatorio che, rivelandoci la nostra irrilevanza nel grande caos di questo mondo,  forse ci aiuta a vivere con più leggerezza.