In una mossa meta-narrativa che piacerebbe a Wes Anderson, vogliamo iniziare questa recensione di Asteroid City parlando di quanto sia difficile recensire i film di Wes Anderson. Visualizziamo una macchina da scrivere – inquadrata rigorosamente dall’alto – e immaginiamo un foglio bianco e delle dita immobili. Questo blocco dello scrittore sembra cogliere, che lo ammettano o no, gran parte dei critici.
Fate un giro su internet e troverete che quasi tutte le recensioni di Asteroid ricadono in uno o entrambi i seguenti atteggiamenti: da una parte una specie di ossessione archivistica, che si affanna a rintracciare e catalogare la messe di riferimenti culturali caratterizzante ogni film di Anderson come se la somma bastasse a produrne il senso; dall’altra l’espressione di frustrazione per quello che i film di Anderson – soprattutto emotivamente - si vorrebbe che dessero e invece non danno, o che danno progressivamente meno via via che il suo stile si radicalizza in un’astrazione sempre più idiosincratica e inospitale.
È uno stallo comprensibile se si pensa a quello che si suppone debba fare un critico/a alle prese con l’opera di un autore; vale a dire contestualizzarla nel suo tempo storico/produttivo, registrarne le evoluzioni formali, rintracciarvi una visione del mondo eventualmente articolata in “tematiche” e incarnata in figure di protagonisti capaci di offrirsi allo sguardo spettatoriale come veicoli d’identificazione o quantomeno di giudizio. Tutto questo nel caso dei film di Anderson risulta sempre più difficile. Certamente in virtù del suo successo di brand, prima come bandiera hipster e poi come faro estetico della Generazione instagram, il suo cinema ha potuto svilupparsi indisturbato da cesure radicali.
Come per il suo parente più prossimo, Tim Burton (di cui qui si cita Mars Attacks!) la capacità di quello stile di farsi moda e posa estetica ha portato invece a un’ipostatizzazione, una sorta di proliferazione incontrollata che alla lunga rischia per molti di trasformarsi in viewer fatigue. La forma non cambia, o cambia solo per essere sempre più se stessa. E la visione del mondo non si distingue più, forse perché il mondo in questo stile soffocante appare ormai non filtrato, ma letteralmente sostituito dalla funzione soggettivo-autoriale.
In termini di gradimento di pubblico e calore emotivo, Anderson è più lontano dall’idolo indie di Rushmore, I Tenenbaum o Moonrise Kingdom proprio quando porta all’estremo la sua rarefazione dell’identificazione spettatoriale. Come molti autori del postmoderno, il regista texano propone personaggi che si muovono in un mondo già narrativizzato, dove le scenografie e gli universi raccontati sono coaguli di cultura pop (Burton, Tarantino) e dove gli eroi interagiscono con narrazioni di sé stessi alternativamente autoprodotte o eterodirette (Nolan, Fincher, Coen, Wachowski, Kaufman).
Quello che rende Anderson affascinante, e per certi versi più coraggioso e radicale, è la dimensione smaccatamente costrittiva e artificiosa del suo cinema. Se guardiamo agli altri autori citati infatti, ci accorgiamo che quasi tutti trovano il modo di recuperare almeno in parte la narrazione classica. Per quanto citazionisti, frammentari, opachi o autocoscienti, i loro film sono pur sempre racconti in Terza o Prima persona dove uno o più personaggi sono protagonisti di un journey, con tutto quel che ne consegue in termini di identificazione, ricompensa emotiva e messa a frutto di dinamiche narrative-spettacolari.
Questo vale certamente anche per l’Anderson prima maniera, sognatore romantico da cameretta adolescenziale sulle cui pareti stanno idealmente fianco a fianco i poster di I Tenenbaum e Edward mani di forbice. Ma l’Anderson 2.0 degli ultimi anni è un animale completamente diverso. Non più il creatore di personaggi sognanti persi in mondi immaginari, in cui poteva immedesimarsi lo spettatore ugualmente imbevuto di cultura pop degli anni Novanta e Duemila. Più sottilmente, il creatore di universi dumpster del narrativo (come la discarica di L'isola dei cani) dove gli elementi del pop, di Hollywood, dell’emozione cinematografica ci sono tutti, ma non fanno esattamente il loro lavoro.
Appassionarsi diventa impossibile, perché ora l’artificialità/metatestualità non è più una caratteristica del vissuto di un eroe – in quanto tale comprensibile, disponibile all’empatia e perfino all’identificazione – ma sempre più l’ordito stesso dell’opera, in un moltiplicarsi di riferimenti inerti che stanno tra loro in rapporto più scenografico e architettonico che non tradizionalmente narrativo o simbolico.
Similmente Anderson disinnesca e riduce a diorama il divismo, reclutando cast all-star che però usa col contagocce, diluendone la forza nel numero e rarefacendone la recitazione in un deadpan che praticamente lascia invariato il solo Bill Murray. Così “murrayzzati” i suoi attori diventano segni eccessivi, sproporzionati rispetto al proprio ruolo, finendo per significare – come una collezione di farfalle variopinta ma stecchita – soprattutto sé stessi.
Nello stesso solco, Asteroid City porta a nuovi estremi l’ossessione di Anderson per i racconti a scatole cinesi, dove i piani di realtà e finzione si moltiplicano vertiginosamente. Il personaggio di Scarlett Johansson per esempio è un’attrice (nella cornice in bianco e nero) che interpreta (nel mondo a colori dentro la pièce) un’attrice, a sua volta alle prese con ruoli che prova in un gioco di seduzioni e confessioni davanti al fotografo interpretato da Jason Schwartzman.
Le foto in cui compare aumentano ulteriormente il gioco di specchi, mentre il fatto che il mondo in cui si muove per quasi tutto il film abbia colori e consistenza cinematografica (quindi “vera” per noi pubblico) genera una continua esitazione sulla natura vero-finzionale o finto-realistica del suo arco narrativo. Per di più il personaggio indossa spesso un makeup che simula un occhio nero, il quale però non significa che abbia subito violenza, ma è (nella logica finzionale della pièce) davvero un makeup che l’attrice si applica per entrare meglio nei suoi ruoli.
Ovunque ci si volti in questo universo si trova solo finzione, messa in scena, costume, ruolo narrativo, scenografia, cliché musicale, immaginario. Ma tutto questo è disinnescato, statico, non produce catarsi né progressione narrativa in senso classico. Se ancora per il pastiche est-europeo di Grand Budapest Hotel poteva in qualche modo valere il detto lubitschiano per cui “la Parigi più vera è quella della Paramount”, qui Anderson sembra lasciarsi alle spalle la costruzione di un mondo immaginario dove l’avventura e la Soggettività possono fare il loro corso in favore di una disturbante decantazione di elementi immaginari che si può leggere come frutto tardivo ed estremo delle soggettività deboli e intrappolate del postmoderno.
Nel mondo di Anderson non ci sono più né libertà d’azione né eterodirezionalità; gli eroi non sanno esistere al di fuori del racconto, che però a sua volta non funziona più (“I don’t understand the play”), indebolito da un eccesso di autoconsapevolezza che si trasforma in tragica stasi. La Prima e la Terza persona, corrispondenti fin troppo perfettamente alle inquadrature frontali e di profilo che affollano i suoi film, non significano più la Vita ma la prigione di un verbiloquio ormai inarrestabile, che sa solo raccontare di raccontare di raccontare..