Il volto in bianco e nero di Lou Reed riempie una metà dello schermo. Le palpebre si chiudono a scatti nel loop del montaggio, ma il suo sguardo resta fisso nel nostro. Nell’altra sezione dell’immagine si alternano flash e graffi di pellicola pronti a confondersi con le luci e le strade di New York. La voce di Lou proviene da un’altra vita, si fa presenza-assenza: “È come se mi trovassi in un cinema. Il lungo fascio di luce intermittente attraversa il buio. I miei occhi sono fissi sullo schermo.
La pellicola è piena di macchie e striature. Sono anonimo e ho dimenticato me stesso. È sempre così quando si va al cinema. È, come si dice, una droga.” Ed è un po’ così che ci si sente a guardare il documentario di Todd Haynes sui Velvet Underground: sotto l’effetto di una droga. Ipnotizzati da un’orgia di luci stroboscopiche, colori acidi, intrecci dissonanti di viola e chitarra e volti costretti a sfiorare il passato. Soltanto sfiorarlo.
Due ore per un documentario decisamente atipico che sostituisce il senso di incompletezza con un calcolato estraniamento. Perché questo furono — e tutt’ora restano — i Velvet Underground: un’ode all’estraniamento, al disagio. Come una battuta di dubbio gusto capace di ammaliare gli astanti e che lascia un senso di fastidio, giù in fondo. Né simboli riconoscibili, né icone, né certamente figli della controcultura americana, bensì la risposta stridente, unica e irripetibile, ai prodotti artistici, musicali, visuali, commercia(bi)li degli anni Sessanta.
A ben vedere i VU (Lou Reed, John Cale, Maureen “Moe” Tucker, Sterling Morrison, Nico e, solo alla fine, Doug Yule) non furono nemmeno una “band” in senso stretto, piuttosto un miracolo che di sacro non aveva nulla, ma al quale oggi siamo un po’ tutti devoti. I Velvet Underground furono un crocevia di retaggi e un autentico Big Bang per chi non si sentiva allineato a un senso di appartenenza specifico. Ed è assolutamente verosimile, come dice Brian Eno, che quelle 30.000 copie della “banana” (The Velvet Underground & Nico) vendute nell’arco di cinque anni furono capaci di ispirare altrettanti musicisti, ma è anche vero che i Velvet Underground rimasero impalpabili, irraggiungibili, anche quando rischiarono di “normalizzarsi” in nome di un’ambizione riconoscibile. La domanda è servita: cosa ci si aspetta da un documentario sui Velvet Underground? E, soprattutto, cosa ci si aspetta da un documentario sui Velvet Underground firmato Todd Haynes?
Da un regista che ha saputo interpretare e decostruire le “mitologie rock” cosiddette — da Velvet Goldmine al bellissimo Io non sono qui — ci si può prefigurare un prodotto non del tutto allineato alle dinamiche del documentario classico. E in un certo senso è così: The Velvet Underground disattende le aspettative, ma in un senso ancora più spiazzante. Sì, perché se il film si assesta visivamente su costruzioni studiate per stuzzicare i sensi dello spettatore, su un piano narrativo segue un percorso senza deviazioni di sorta, per restituire la cronistoria pedissequa degli eventi. Dagli esordi di Lou Reed coi Primitives all’incontro di John Cale con l’avanguardia di La Monte Young e del Theatre of Eternal Music, passando per le orchestrazioni di Andy Warhol e il reclutamento di Nico, liquidando con una certa velocità gli anni “pop” o “del disfacimento dei VU”, quando la personalità caustica di Lou Reed ha portato a sacrificare alchimie psichedeliche irripetibili sull’altare del rock ’n’ roll.
Al centro del racconto e al di fuori del materiale d’archivio, le testimonianze dirette di John Cale e Maureen Tucker, due autentici sopravvissuti. Quasi a danzargli intorno, il regista Jonas Mekas, La Monte Young, Marian Zazeela, Martha Morrison (moglie di Sterling), la superstar della Factory Mary Woronow, il manager Danny Fields e, tra i pochi musicisti chiamati in causa, Jackson Browne e Jonathan Richman (forse il più grande fan dei VU sul pianeta Terra insieme a Michael Stipe dei R.E.M.). Non ci sono Iggy Pop e Patti Smith, ai quali John Cale produsse gli album di esordio, ma c’è un intervento in voice over di David Bowie.
Ed è ciò che si intende per “sfiorare” il passato: nel film di Todd Haynes non si esplora a fondo la genesi delle canzoni, non c’è spazio per dettagli morbosi sul consumo di droghe, non si sviscera (troppo) il contesto e si lasciano persino i contributi di Nico e di Andy Warhol sullo sfondo. Non si aprono, insomma, parentesi e sottotrame per rafforzare la narrazione e giustificare la complessità delle relazioni, ma si affida alle immagini il compito di abbagliare per contrasto. Come se i Velvet Underground fossero stati un sogno inafferrabile, l’Exploding Plastic Inevitable warohliano venuto a squarciare e dissacrare tanto la retorica hippie del “peace and love” quanto il divismo borghese.
The Velvet Underground di Todd Haynes sembra seguire la parabola dei VU volutamente a distanza. Come un evento davvero ineludibile e fatale e, in quanto tale, già esaustivo. È quasi un invito a scoraggiare l’approfondimento, ogni tentativo di rendere “monumentali” i Velvet Underground per mezzo di una ricerca maestosa e appagante. L’atto di conservazione di un oggetto oscuro che non voleva davvero essere spiegato, che non può essere contenuto né sottoposto a dissezione senza perdere un po’ della sua magia. E a pensarci bene, nel suo restare intenzionalmente in superficie, questo film resta un autentico atto d’amore.