Il viaggio di Sergei Loznitsa in Italia, in questi giorni, per presentare Austerlitz, è stato intenso e sorprendente per la lucidità e consapevolezza di questo cineasta straordinario. Inoltre, il suo film pare il più esemplare modo per riflettere – invece che celebrare senza meditare – sul concetto di trasmissione storica nella Giornata della Memoria. 

Sarebbe facile liquidare il suo capolavoro come un oggetto di arte visuale museale – una installazione da post-cinema – e classificare i turisti che visitano ottusamente il campo di concentramento di Sachsenhausen come superficiali e sciocchi invasori di uno spazio rituale, storiograficamente denso. In verità è in gioco il concetto stesso di Memoria e di assoluta specificità della tragedia della Shoah. La difficoltà di creare una connessione tra lo spazio dell’orrore e i cittadini di oggi, peraltro impegnati in una frenetica corsa alla registrazione audiovisiva di ciò che stanno visitando, dicono di uno scacco filosofico e antropologico terribile. 

Un film che pare claustrale e soffocante, per la scelta delle inquadrature fisse (ovviamente legate ai Lumière da molti e differenti legami sotterranei), e che invece appare piuttosto libera. Il “chi sono loro?” che potrebbe investire gli spettatori più sensibili e istruiti nei confronti dei turisti irrispettosi e irriflessivi (a chi verrebbe mai in mente di indossare una maglietta di Jurassic Park in un campo di concentramento?) lascia presto spazio a un “chi siamo?” pieno di angoscia.

Scrive Rinaldo Censi: “Un ragazzo mangia un panino, infastidito da una vespa. Tenta di cacciarla gesticolando con la mano. E a me sembra che il film sia tutto lì: è il gesto di filmare e insieme catturare tutto un pullulare di tic e gesti strambi, di gente che cammina, si piega in modo strano per scattare foto, si gratta, si mette in posa, caccia vespe, rischia di cadere pur di scattare foto. Una specie di tourettismo in epoca digitale, se volete.   Finisce che ci spostiamo verso la zona Z, quella del Crematorio e della Camera a gas, e siamo ormai alla fine del film. Notiamo giusto un momento di spaesamento, quando alcune persone filmate in campo medio osservano lo spazio davanti a loro. Una presa di coscienza, ma è solo un attimo”.

Scrive Simone Emiliani: “Per Loznitsa c’è stato uno stupro di quel luogo da parte delle SS. E c’è anche oggi. Si ripete quotidianamente. Dove ogni punto ha perso di significato. Perché invece ogni dettaglio viene fotografato. Ogni pietra, ogni iscrizione. Tutto diventa uguale. E anche l’immagine necessaria e superflua ormai si confondono. Perché forse oggi non ha più senso neanche un film sulla Shoah. Sono passati 22 anni da Schindler’s List ma sembra un’era glaciale. E c’è l’amara consapevolezza che la ricettività delle immagini cinematografiche è sensibilmente diminuita. Perché ne guardiamo troppe. Quindi forse il cinema oggi, per Loznitsa, non ha più drammaticamente senso. Perché può essere anche visto in contemporanea con un’immagine o un whatsapp sullo smartphone. Ed è per questo che Austerlitz arriva come un uragano”.

Scrive Luca Malavasi: “Non è soltanto per una questione di stile – la forza e la durezza di pochi, lunghi piani fissi che si succedono implacabilmente per un’ora e mezza, mostrando più che inquadrando – che dopo pochi minuti dall’inizio di Austerlitz  viene da chiedersi (ed è una domanda che non abbandona più lo spettatore) chi, o forse cosa, stia guardando. Non basta concludere, come hanno fatto in molti, che guardiamo il guardare della Folla che, quotidianamente, attraversa (visita) il Campo di Concentramento Nazista (tutto maiuscolo, perché il soggetto del film è la singolarità assoluta di una condizione plurale) (…).
Ma che quel guardare ostinato appartenga alle cose – al Campo – lo si intuisce soprattutto grazie al “vero” libro che sta alla base del film, Scorze di Georges Didi-Huberman (uscito in francese nel 2011 e in italiano, per Nottetempo, nel 2014), racconto per frammenti e immagini di una visita dello scrittore al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Una visita nel tempo del campo, oggi “luogo di cultura”, ieri “luogo di barbarie”, nella distanza che separa queste due definizioni, una visita a ciò che resta – può davvero restare – del primo nel secondo: «Che cosa dire quando Auschwitz deve essere dimenticata nel suo luogo reale per costituirsi come luogo fittizio destinato a ricordarsi di Auschwitz?». L’improvviso atterraggio di un uccello, che si posa tra due recinzioni di filo spinato, attira l’attenzione del filosofo sull’inevitabile (ma non per questo pacifico) compromesso che congiunge le due definizioni: sullo sfondo, corre il filo spinato elettrificato del campo, col suo metallo ormai scurito dalla ruggine; in primo piano, un filo spinato più chiaro, intrecciato in modo diverso, evidentemente installato di recente: «Rendermene conto mi fa stringere il cuore», scrive Didi-Huberman; e poi: “Sento che l’uccello si è posato tra due temporalità terribilmente disgiunte, tra due modi completamente diversi di gestire la stessa porzione di spazio e di storia. L’uccello, senza saperlo, si è posato tra la barbarie e la cultura”.

Dice Sergei Losnitza: “L’idea di fare questo film mi è venuta perché visitando questi luoghi ho sentito subito una sensazione sgradevole nel mio essere lì. Sentivo come se la mia stessa presenza fosse eticamente discutibile e avrei voluto davvero capire, attraverso il volto delle persone, degli altri visitatori, come ciò che guardavano si riflettesse sul loro stato d’animo. Ma non nascondo di esserne rimasto, alla fine, abbastanza perplesso. Ciò che induce migliaia di persone a trascorrere i fine settimana estivi in un ex campo di concentramento è uno dei misteri di questi luoghi della Memoria. Si può fare riferimento alla buona volontà, al desiderio di compassione e pietà che Aristotele collega con la tragedia. Ma questa spiegazione non risolve il mistero. Perché una coppia di innamorati o una madre con il suo bambino vanno a fare visita ai forni crematori in una giornata di sole estivo? Ho concepito questo film per cercare di confrontarmi con queste domande.

Una serie di piani sequenza in campo fisso, fotografati in bianco e nero, che montati l’uno dopo l’altro formano un percorso che è quello del giro turistico prestabilito e indicato da cartelli, guide e audioguide, ma è anche il percorso cui – giorno dopo giorno, sapendo di poter morire da un momento all’altro – erano costretti i prigionieri durante la detenzione. L’impressionante spettacolo va ben oltre il giudizio – facile e scontato – di condanna e di ribrezzo nei confronti delle persone che visitano un luogo di morte, dolore e sofferenza con la leggerezza con cui si visitano una pinacoteca o un sito archeologico. Il disprezzo per il turista che si fa i selfie nei crematori e nelle camere a gas, che si mette in posa per la foto sul palo delle esecuzioni o che passeggia allegro fra i viali delimitati da dormitori, baracche e celle di detenzione e mangia il pranzo al sacco seduto sul lastricato che separa la strada dalle fosse comuni, anche se è la prima e naturale reazione di ogni spettatore, non deve trarre in inganno né condurre a semplicistiche e banali conclusioni su quello che il film dice e mostra.
Siamo proprio sicuri che ci comporteremmo tanto diversamente se fossimo al loro posto?”.