Se c’è un autore contemporaneo la cui visione sembra informata da un’idea gerarchica dell’arte, quello è Damien Chazelle. Lungo i suoi primi quattro film, compreso First Man (2018), la questione per eccellenza è stata sempre la stessa: la lotta ad ogni costo, contro tutto e tutti, per aderire a un’ideale di integrità artistica “per pochi”. La disciplina massacrante, al limite dell’auto-martirio di Whiplash (2014), la rinuncia all’amore di La La Land (2016) - da sempre equivocato come grande film sentimentale – che si fa distanza umana cosmica nel caso dell’astronauta Armstrong; dietro tutto questo si agita un’ossessione per il gesto artistico puro e non compromesso, che spesso e volentieri si tinge dei toni malsani di una rinuncia nichilistica al mondo in nome dell’arte. 

Sì, ma quale arte? Non possono essere tutte uguali. E infatti il corollario di questa missione monastica (arrogante e classista) è la netta delimitazione fra veri artisti e – in formazione - “deboli”, “venduti”, “ignoranti”, nonché fra arti maggiori e arti minori, laddove l’attribuzione di legittimità è inversamente proporzionale al grado di popolarità. In Babylon questa visione incontra per la prima volta direttamente l’arte popolare per eccellenza, il cinema, approdando con coerenza a una concezione che viene da definire cinefoba.

Raccontando il cataclisma dell’avvento del sonoro dal punto di vista di star del muto ricalcate su John Gilbert e Clara Bow (Pitt e Robbie), Babylon ripete in apparenza l’atteggiamento passatista già proprio di Whiplash e La La Land, film nostalgici di un’età dell’oro che i protagonisti rifiutavano di veder morire. Adoratori di Charlie Parker e Buddy Rich, i jazzisti Miles Teller e Ryan Gosling non chiedevano che di ricalcare calligraficamente le gesta dei loro idoli, avendo orrore del nuovo, del commerciale e delle contaminazioni.

Come loro, le star decadute Jack Conrad e Nellie LaRoy rimpiangono il passato e maledicono i neonati talkies. Come loro, Conrad/Pitt è un uomo che ha sacrificato tutto alla carriera, in particolare i sentimenti. E come loro crede ciecamente nell’integrità artistica del suo lavoro, sognando un cinema shakespeariano e grandioso capace di elevarsi finalmente al rango di arte maggiore (lo fiancheggia Irving Thalberg, grande fautore del prestige picture rivolto a un pubblico non più popolare ma borghese). La differenza sta nel fatto che, mentre i primi due sono dipinti in chiave eroica e tragica, Conrad e Nellie sono due buffoni ignoranti e senza valore, tutt’al più tragicomici. Evidentemente per l’autore, batterista fallito riciclatosi al cinema, il cinema non è il jazz.

Dovendo riassumere la differenza fra i due in una sola parola, quasi certamente Chazelle sceglierebbe “indisciplina”. Sappiamo bene che per lui l’arte è una routine marziale (Full Metal Jazz), un’astinenza monacale dal piacere, un castigo fatto di schiaffi in faccia dati a tempo di metronomo. Si guardi dunque alla differenza fra le due grandi scene d’insieme che aprono La La Land e Babylon, il film (soprattutto) sulla musica e il film (soprattutto) sul cinema: da una parte la luce apollinea e le geometrie perfette di una coreografia studiata al millimetro, la misura; dall’altra il Dionisiaco, il caos, il sesso e la droga, in una parola l’eccesso. Si guardi ora alla scena di Babylon in cui la presenza del suono costringe i cinematografari a rigirare dieci volte la stessa scena. Non abituati a segni per terra e temperature proibitive, non abituati a “tenere il tempo”, si rivelano per le nullità che sono, sacrificati letteralmente – qualcuno ci lascia le penne - sull’altare di un gioco troppo duro per loro.

Non può esserci arte, in questa Babilonia dove si diventa grandi in una notte agitando il culo in faccia al produttore giusto. E infatti non ce n’è: l’avvento del sonoro è il fascio di luce che si accende sull’inettitudine di sedicenti artisti come Conrad e sulla bassezza dell’arte che praticano. Quando l’aura di sacralità e trascendenza conferita loro dal muto scoppia come una bolla di sapone, il pubblico dà loro ciò che meritano: ride. E quando i microfoni si mettono in moto finalmente emergono gli artisti veri, i jazzisti neri come quello interpretato da Jovan Adepo, che a un certo punto dice “state puntando i riflettori dalla parte sbagliata”. Ovviamente a Chazelle il jazz non basta, i suoi trombettisti devono per forza riempirsi la bocca di nomi come Rachmaninov, appoggiandosi a un’idea di alta cultura euro e classico-centrica che mal si sposa con le sue furbe strizzate d’occhio al revisionismo culturale che investe l’America contemporanea (l’orientalismo, il blackface).

Nel suo processo al cinema come arte minore, spuria, commerciale, ingiustamente rivalutata dalla storia, Chazelle chiama a testimoniare l’autore più sideralmente lontano da questa concezione: Quentin Tarantino. In effetti il tasso di citazioni tarantiniane in Babylon è così alto da non poter essere casuale. C’è un Brad Pitt baffuto che parla in un italiano esilarante come l’Aldo Raine di Bastardi senza gloria (2009); c’è una rianimazione identica alla scena dell’adrenalina di Pulp Fiction (1994); e c’è una Margot Robbie attrice-spettatrice che sibila piccata alla cassiera di un cinema “I’m in the movie”, riprendendo alla lettera una scena di Once Upon a time in... Hollywood (2019). Al polo opposto rispetto a Chazelle, Tarantino è fautore per eccellenza di una cinefilia che tende a elevare ad arte la cultura “bassa” dei B-movie, dei cartoon, del cinema di genere e d’exploitation, ma che allargando il discorso non fa che ripetere ed estremizzare il graduale percorso di legittimazione artistica affrontato dal cinema tutto.

In particolare, Babylon sembra intrecciare il dialogo più fitto e oppositivo proprio con Once Upon a Time. Dell’opera nona tarantiniana il film ribalta sui cardini l’“orgoglio redneck” (Rosenbaum), la voglia di stare dalla parte di un trio di artisti bifolchi e caciaroni (come Dalton/Di Caprio, LaRoy/Robbie è inchiodata alla propria inferiorità di classe dall’ignoranza del francese). Se lì il basso era rivendicato e indossato come una divisa, qui è semplicemente additato e schernito come tale.

Rispetto al magistero tarantiniano quello di Babylon si pone come un immane e fortunatamente futile sforzo di restaurazione culturale, volto a rimettere il pulp – e per estensione il cinema di cui fa da sineddoche - al posto che gli compete, cioè fra le viscere, il sangue, il veleno e la merda d’elefante. Anche come commentario sulla Hollywood post #metoo di oggi, affidato a un pur divertente Tobey Maguire, Babylon non risulta meno semplicistico e desolante: “una volta qui sapevano come divertirsi” dice il suo personaggio, esprimendo didascalicamente il criminale rimpianto per un’epoca in cui a Hollywood era dato lasciarsi andare alle peggiori nefandezze. Tanto l’arte vera si è sempre fatta altrove, no?

Ecco a voi Damien Chazelle. Il cineasta che odia il cinema.