C’erano una volta a Hollywood Brad Pitt e Margot Robbie, c’erano la droga e il sangue, c’era la rivoluzione del cinema e della percezione che se ne aveva avuta fino ad allora… ma no, non c’era Tarantino. Il quarto film del regista statunitense Damien Chazelle segue le vicende di stelle (cadenti) della vecchia nuova Hollywood – quella del passaggio dal muto al sonoro, dello studio system, del divismo e degli eccessi – per esprimere, come molti altri autori stanno facendo negli ultimi tempi, il proprio amore per la settima arte; lo fa riproponendo, attraverso una trama a tratti sconclusionata, il tema che più di tutti caratterizza la sua cinematografia: il raggiungimento di un sogno impossibile.

Babylon si presenta al pubblico come un alter ego di quella La La Land che nel 2017 aveva consacrato Chazelle come miglior regista agli Oscar; anche in quel caso la camera aveva seguito protagonisti accomunati dal desiderio di conquistare la mecca californiana del cinema, ma l’aveva fatto attraverso una lettura profondamente intima dei personaggi lasciando che fossero i sentimenti a guidare l’evolversi della vicenda.

Come per Whiplash prima e First Man poi, anche La La Land si ergeva su una solida base di emotività; Babylon si allontana dai precedenti lavori del regista, permettendo solo in rari momenti una piena empatia con Nellie La Roy, Jason Conrad o Manny Torres. Questa nuova opera è prima di tutto spettacolarità, esplosione di suoni (Dio benedica Justin Hurwitz!) e colori – nonostante un vago richiamo al concept di The Artist, sembra che Chazelle abbia cercato ispirazione soprattutto in Moulin Rouge.

"Io vorrei fare parte di qualcosa di più grande" esclama Manny all’inizio del film, riproponendo, sembra, un pensiero dello stesso regista. Nonostante il suo accesso in giovane età nell’Olimpo occidentale del cinema – Whiplash comincia a ricevere gli omaggi dalla critica quando Chazelle ha da poco compiuto trent’anni – lo statunitense, come i suoi protagonisti sembra sempre in cerca di qualcosa di più significativo, di un risultato mastodontico. Forse è così che si è arrivati alla produzione di Babylon, un film che tenta di racchiudere nel personaggio interpretato da Diego Calva la passione sfrenata per il cinema e voglia di (stra)fare del regista.

Questo non esclude comunque che l’amore per la settima arte sia in parte soffocato proprio da quella voglia di eccedere che anche all’interno della storia finisce con il danneggiare i protagonisti. Babylon non è un film perfetto e da Chazelle, dati i gloriosi precedenti, si pretende una maggiore precisione nella realizzazione dei piani sequenza o nell’impalcatura di una sceneggiatura in questo caso carica di elementi narrativi non chiari.

Al contempo, però, è un film che non lascia indifferenti; sorpresa, sdegno, incanto o puro e semplice mal di testa generato dal ritmo chiassoso delle scene sono tutte reazioni valide che fanno riflettere, in un secondo momento, sulle scelte attuate in merito alla messa in scena piuttosto che su precisi passaggi della trama.