"You know that I don’t even care what they say, I’ll still love you anyway, baby Love gives everything, Just to take it away, And I’d give you anything for you to stay".
Nick Cave, Song For Amy
Di certo non si può negare che Back to Black (il biopic musicale prodotto da Studio Canal e diretto dalla regista e artista multimediale londinese Sam Taylor-Johnson) sia un film gentile e indulgente, non una narrazione binaria buoni contro cattivi, scegliendo di mostrare con delicatezza la fulminea traiettoria umana e artistica di una musicista che, autenticamente, ha saputo mettere in versi e in musica tutte le fragilità e le tentazioni che non poteva combattere: alcol, droga, sesso e fidanzati tossicodipendenti.
Per la realizzazione del film Sam Taylor-Johnson ha collaborato nuovamente con lo sceneggiatore Matt Greenhalgh (dopo il successo di Nowhere Boy del 2009 dedicato alla storia di un John Lennon adolescente), già autore del riuscitissimo biopic Control (2007) dedicato al cantante dei Joy Division, puntando a mostrare l’essenza dell’umano, la storia intima di una ragazza poco più che ventenne oltre il talento; l’obiettivo, pienamente centrato, è differenziare il loro progetto dal documentario Amy, di Asif Kapadia (premio Oscar 2016) sulla ragazza di Camden Town che divenne, oltre che una star internazionale, fonte di intrattenimento per la stampa scandalistica britannica e americana,
Anche il film di Taylor–Johnson non si esime dal rappresentare il rapporto predatorio che i tabloid inglesi avevano con Amy Winehouse, tristemente noti per l’appetito vorace su ogni brandello di informazione sulla vita della star scomparsa nel 2011 al culmine del successo a soli 27 anni, sottraendosi tuttavia alla tentazione di ridurre la narrazione solo a una patetica rappresentazione di una diva freak e fragile, a cui i media ci hanno da sempre abituati. Il film mira piuttosto, attraverso una ecologia dello sguardo, a narrare la storia del carisma fulmineo di Amy dal suo punto di vista, la sua nuda onestà emotiva, l’intensità di una musicista autentica tra quella ristretta manciata di cantanti britannici che ha condotto la musica soul americana nei territori del ventunesimo secolo.
La diegesi del film narra, in 122 minuti, la fusione totale tra arte e vita della musicista, affrescando quel corto-circuito tra musica retrò (dalle atmosfere vagamente Motown e persino ska) e testi ruvidamente contemporanei caratterizzati da un intimismo confessionale, che catapultano Amy allo status di popstar internazionale. L’attrice protagonista del film, Marisa Abela, ha l’onere e l’onore di interpretare i suoi più vibranti successi dei quali si suggerisce la matrice autobiografica, sia tratti dall’ album di debutto del 2003, Frank (in cui la Winehouse rielabora e mixa sapientemente le atmosfere del jazz, del blues e della bossa nova ispirandosi a Dinah Washington e Sarah Vaughan), sia le gemme di Back to Black, il pluripremiato album del 2007 vincitore, tra gli altri, di cinque Grammy Award, scritto dalla stessa Winehouse e confezionato dal dj statunitense Mark Ronson.
Sia chiaro, la magia di Amy Winehouse non è così facile da riprodurre e nemmeno quel carisma vagamente dark che la rendeva così speciale; la sua voce è praticamente impossibile da replicare senza cadere nel territorio della banalità, ma la giovane Abela supera la prova con autenticità prestando un volto pulito che sembra scelto per voler riabilitare la figura di Amy al grande pubblico, concedendo una narrazione diversa anche della sua storia d’amore col famigerato Blake Fielder-Civil, interpretato dal performante attore britannico Jack O’Connell.
Sam Taylor-Johnson sviluppa una regia patinata strumentale alla riscrittura dell’immagine di Amy che concede anche spazio all’inquietudine, facendoci empatizzare con l’artista tranne che nei momenti troppo buonisti e zuccherosi che purtroppo concede al film. Il film mostra una Londra allo stato puro, con i pub Dublin Castle e il Good Mixer di Camden Town intrisi di quel mood vivace realmente esistente che circondava Amy, ci sono scene ricche di dettagli incredibilmente atmosferici.
Supportata dall’ ottima fotografia di Polly Morgan, Sam Taylor-Johnson pone l’enfasi sulla moda e l'amore della cantante per lo stile pin-up, realizzando la ricostruzione filologicamente impeccabile di sequenze di concerti e reinterpretando in chiave narrativa alcuni videoclip dell’artista. In questo la regista (un tempo meglio nota come Sam Taylor–Wood) sfodera tutto il background che la rese celebre negli anni ‘90 come video-artist e fotografa col gruppo degli Young British Artist, che risollevarono le sorti dell’arte contemporanea inglese portando alla ribalta un gruppo di studenti del glorioso Goldsmith College.