Negli anni recenti abbiamo potuto assistere alla fioritura di quello che si sta consolidando come un filone cinematografico sempre più corposo; autori che hanno ricoperto un ruolo centrale nel cinema degli ultimi decenni stanno sentendo la necessità di sublimare il proprio vissuto e (ri)inquadrarlo attraverso il racconto filmico. Da Alfonso Cuaròn, che proprio qui al Lido trionfò con il suo Roma nel 2018, ai più recenti drammi autobiografici di Pedro Almodóvar, Paolo Sorrentino, Kenneth Branagh, James Gray (e si potrebbe aggiungere anche l’imminente Fablesman di Steven Spielberg), la storia sull’origine identitaria dei cineasti si è fatta materia diegetica e fonte per nuove creazioni.

Bardo. Falsa crónaca de unas quentas verdades non presenta lo stretto rapporto con l’infanzia che nelle opere cui si è fatto riferimento occupa un ruolo preponderante, ma assieme ad esse condivide lo sguardo introspettivo tramite cui l’autore cerca un contatto catartico con il proprio vissuto. Con il suo ritorno al lungometraggio, a quasi sette anni dalla storica doppietta da Oscar, Alejandro Gonzáles Iñárritu realizza il suo film più intimista e personale. E se questo per altri ha significato smussare la portata produttiva dei propri lavori al fine di ritrovare un sentore primordiale, per l’esuberante regista di Birdman (2014) e Revenant (2015) ciò è invece incentivo per un’ulteriore ricerca di magniloquenza tecnica, sfarzo visivo e ampiezza narrativa.  

Malgrado l’assenza dei volti hollywoodiani che hanno popolato i suoi ultimi lavori, Bardo cerca di sopraffare lo sguardo degli spettatori presentandosi come l’opera più ampia ed ambiziosa del regista messicano. Sin dalla felliniana sequenza di apertura, il film dimostra di voler fluttuare tra i registri del dramma surreale e della commedia grottesca. Il realismo è relegato ad un ruolo secondario, quasi a fare da semplice raccordo tra la serie di interludi strabordanti in cui è la divagazione onirica a prendere il sopravvento sulle concrete azioni di Silverio, un celebre documentarista che dal Messico deve tornare a Los Angeles per ritirare un prestigioso riconoscimento. Se da un lato è fin troppo semplice sovrapporre alla figura del protagonista quella dello stesso Iñárritu, dall’altro non emerge in maniera altrettanto esplicita su quale tratto della sua esperienza personale ci sia qui la volontà di soffermarsi.

La percezione è quella di un film traboccante di pulsioni desiderose di emergere ed essere raccontate, di piani tematici eterogenei che tentano di convergere attraverso le infinite possibilità sintattiche della finzione cinematografica, ma che faticano a saldarsi e dare vita all’immane affresco onnicomprensivo che pare essere nelle intenzioni dell’autore. Si va dall’intimo dramma della perdita di un figlio appena nato alle nefaste conseguenze del peso della fama. C’è lo sconforto individuale derivante dal dubbio di non meritare i successi professionali conseguiti, ma anche il tremendo senso di colpa di un messicano affermatosi in terra statunitense, il quale sente di avere idealmente prevalso in quel viaggio della speranza che è invece una tragedia collettiva del suo popolo. Verosimiglianza e assurdo sono dunque gli estremi formali tra i quali si agita questa marea di elementi che, inquadrati da lontano come in uno dei ricorrenti campi lunghissimi del direttore della fotografia Darius Khondjii, dovrebbero restituire il complesso ritratto di un uomo tanto brillante quanto fragile e irrequieto.

Nonostante il risultato appaia più limpido nelle intenzioni che non in quanto effettivamente si veda su schermo, la sensazione di affaticamento con cui si arriva al termine di questi 174 minuti è la naturale conseguenza di un viaggio tutt’altro che privo di intensità. Un percorso certamente tortuoso e a tratti ridondante, ma al quale non si possono negare le lodi per il modo in cui riesce ad offrire momenti di inusuale bellezza. Nel raccontare sé stesso Iñárritu rinuncia alla ricostruzione filologica di eventi personali, mirando soprattutto a ribadire la sua idea di cinema, secondo la quale le emozioni sono, ancor prima che legate alla storia, intimamente connesse alla deflagrazione di immagini e suoni. Il modo migliore per parlare di sé è dunque realizzare un film che è la summa della propria poetica, in cui si rinvengono echi delle opere precedenti, riconoscibili e amplificati.

È cinema tracotante? Forse, ma anche questa sfacciata presunzione artistica può risultare piacevole quando supportata da doti tecniche fuori dal comune e da una irrefrenabile (nel bene e nel male) necessità di esprimersi attraverso questo mezzo. Fino all’esagerazione, fino a perdere il controllo e rischiare lo sfinimento, perchè in questi casi l’eccesso non può essere considerato un peccato.